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Il terzetto delle dame grigie

Tre dame grigie stan sedute intorno
ad uno stagno, sul finir del giorno.
 
Guardan la bruma vaporar dall’acque:
pensano un canto che oscillò, poi tacque.
 
L’una lasciò cadere il suo lavoro,
un giglio bianco sulla trama d’oro:
 
l’altra perdette al suo volume il segno,
ove si parla d’Elsa e del suo regno:
 
la terza non ha libro di leggenda,
non ha filo e ricamo—e par che attenda:
 
che cosa?... o chi?...—Riflette i volti lividi
lo stagno.—Il cielo ha nubi, e l’acqua ha brividi.
*
Dice la prima dama, con un riso
timido e dolce nel pallor del viso,
 
ma triste, oh, triste al par della memoria
d’un sogno: Io son colei che non ha storia.
 
Le mie carezze non le seppe alcuno,
poi ch’io serbai tutto il mio cor per uno
 
che non mi vide.—Io son colei che cuce
sola, al balcone, fin che il giorno ha luce:
 
che passa come in un deserto fra le
turbe: che non sa il bene e non sa il male:
 
che irrigidisce in sè chiusa e raccolta,
già morta prima d’essere sepolta.—
*
—Ebbi un fascio di raggi per capelli—
mormora l’altra—e il sol negli occhi belli.
 
Venne l’Inverno e nevicò sul ramo,
ma «Che t’importa?...» uno mi disse «Io t’amo:
 
chioma d’argento sarà chioma bionda
sempre, per la mia bocca sitibonda.
 
Ad ogni filo bianco un bacio scocca
la fida bocca, l’adorata bocca:
 
più fugge il tempo e più al mio si stringe
il cor che sol da me conforto attinge;
 
ma è tardi. E già nell’ombra che ci preme
solo temiam di non morire insieme».
*
Geme la terza: Io voglio i miei vent’anni.
Chi me li rende, coi divini inganni
 
d’allora?... Io dunque fui quella che visse
di baci e «Amor» col proprio sangue scrisse,
 
e coperse con maschere di grazia
le febbri della carne non mai sazia?...
 
Le mie labbra han le stimmate roventi
dei morsi. Io so l’orror dei roghi spenti.
 
So delle rughe l’onta ed il martirio
sulla bellezza; e il torbido delirio
 
dei sensi vivi in fascino che muore.
Che farai dunque, o mio selvaggio cuore,
 
se invecchiare non puoi come le chiome?...
Oh, il tempo di sorridere al tuo nome,
 
di scorger l’orma del tuo piede al suolo,
d’afferrar del tuo manto un lembo a volo,
 
o Giovinezza, e fuggi!... Oh, il tempo di....»
.... Taccion le bocche stanche. Scolorì
 
una rossastra nube in cielo, e parve
morire.—Tutto è cenere.—Tre larve
 
immote e sole, dello stagno a riva,
sì immote che non sembran cosa viva,
 
restano a guardia della cupa notte:
ombre vane, la vana ombra le inghiotte.

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