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Storia di cinquecento Vanesse

[Come dal germe]

Come dal germe ai suoi perfetti giorni
giunga una schiera di Vanesse; quali
speranze buone e quali fantasie
la crëatura per volar su nata
susciti in cuore di colui che sogna
col suo lento mutare e trasmutare,
la maraviglia delle opposte maschere,
la varia grazia delle varie specie,
in versi canterò... Non vi par egli,
non vi par egli d’essere in Arcadia?
 
Dolce Parrasio! Dileguati giorni
dell’Accademia, quando il Mascheroni
con sottile argomento di metalli
le risentite rane interrogava.
Le querule presaghe della pioggia
(altro presagio al secolo vicino!)
stavano tronche il collo. Con sagace
man le immolava vittime a Minerva
su l’ara del saper l’abate illustre,
e se all’argentea benda altra di stagno
dalle vicine carni al lembo estremo
appressava, le vittime risorte
vibravan tutte con tremor frequente.
L’orobia pastorella impallidiva
sotto le fresche rose del belletto,
meravigliando alla virtù che cieca
passa per interposti umidi tratti
dal vile stagno al ricco argento e torna
da questo a quello con perenne giro.
Di sua perplessità– dubito forte -
si giovava l’abate bergamasco
per cingere lo snello guardinfante
e baciare furtivo (auspice Volta!)
tra l’orecchio e la vasta chioma nivea
la dotta pastorella sbigottita.
Ma voi, sorella, non temete agguati
 
dal fratello salvatico in odore
di santità? Con certo ritüale
arcadico (per gioco!) e bello stile
(per gioco!) altosonante, come s’offre
nova un’essenza in un cristallo arcaico,
queste pagine v’offro, ove s’aduna
non la galanteria settecentesca,
ma il superstite amore adolescente
per l’animato fiore senza stelo;
offro al vostro tormento il mio tormento,
vano spasimo oscuro d’esser vivi,
a voi di me più tormentata, a voi
che la sete d’esistere conduce
per sempre false imagini di bene.
Forse lo stanco spirito moderno
altro bene non ha che rifugiarsi
in poche forme prime, interrogando,
meditando, adorando; altra salute
non ha che nella cerchia disegnata
intorno dall’assenza volontaria,
come la cerchia disegnata in terra
dal ramoscello dell’incantatore:
magico segno che respinge tutte
e le lusinghe e le insensate cure;
solo rifugio dove il cuore spento
vibri fraterno e riconosca l’Uomo,
ché più non vede l’esemplare astratto,
ma la specie universa eletta al regno
del mondo. E come il Dio d’antichi tempi
appariva all’asceta d’altri tempi,
così l’asceta d’oggi senza Dio
sente nel cuor pacificato un bene
sommo, una grazia nova illuminante,
lo Spirito immanente, l’acqua viva,
e si disseta più che alle sorgenti
che mai non troverete, o sitibonda...
 
Queste, che dico, dissi a voi parole
or è già molto, camminando a paro
per una landa sconsolata e voi,
mal soffrendo il velen dell’argomento,
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d’un’ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante,
tortuosamente. Non mi punse quella
che più forte s’accosta e men ci punge;
e nel gesto passare vidi un cumulo
minuscolo di germi di Vanesse
sulla villosa nervatura e forse
dal vostro gesto, ancor agropungente,
nato è il poema, poi che sul mistero
del piccolo tesoro accumulato,
già in quell’istante, con parole sciolte
taluna esposi delle meraviglie
che più tardi nel mio silenzio attento
passo passo tentai chiudere in versi.
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