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a b c d f g l m n p q r s t u Tutti
Roberto Antonio Gargiulo

Mi chiamo Roberto Antonio Gargiulo, sono nato il 18 gennaio del 1999 in una casa in provincia di Caserta. Il mio percorso artistico è iniziato nel 2002, quando avevo tre anni. Passavo il tempo ad osservare e poi disegnare con la matita tutto ciò che mi attirava. Ho scoperto da solo la prospettiva, e a sei anni mi è stato proposto di partecipare come uditore alle lezioni del Liceo Artistico di Santa Maria Capua Vetere. Intanto a cinque anni ho iniziato a studiare pianoforte. Alle medie sviluppai interesse per la recitazione e la composizione. Nello stesso periodo vivevo una forte crisi con il disegno, incompreso dagli insegnanti e insofferente nei confronti della matita. Per otto anni non ho più disegnato, se non piccoli e sporadici schizzi. Successivamente, durante gli anni del Liceo musicale a Capua, ho iniziato a nutrire interesse per la scrittura creativa, la poesia e la fotografia. Poi, libero dagli impegni scolastici, finalmente ho potuto studiare approfonditamente le varie discipline che mi avevano colpito negli anni precedenti. Nel 2017 mi sono iscritto all'Accademia di Belle Arti di Napoli, che lasciai dopo tre mesi per continuare gli studi da un maestro. Allo stesso tempo iniziai a studiare pianoforte al Conservatorio Cimarosa di Avellino (laureandomi nel 2020), e privatamente canto, composizione, recitazione e fotografia. Da autodidatta invece ho approfondito la poesia e la scrittura creativa. Il mio obiettivo artistico è quello di unire due o più arti in un'opera grande, nuova, variegata, completa: qualcosa che incarni l'universalità del nostro periodo storico globale. Credo che possa definirmi un "nomade" artistico, un viandante che cerca di avere quanti più strumenti possibili per esprimersi, in una continua ricerca interna e del mondo. A questo viaggio, progetto e concetto do il nome di Ars.

Giuseppe Giusti

Giuseppe Giusti (Monsummano Terme, 13 maggio 1809 – Firenze, 31 marzo 1850) fu un poeta italiano del XIX secolo, vissuto nel periodo risorgimentale. Appartenente ad una ricca famiglia di proprietari terrieri, era figlio di Domenico Giusti e di Ester Chiti. Biografia L’infanzia Dai sette ai dodici anni fu affidato, per essere istruito, alle cure di Don Antonio Sacchi, ma non ne ricavò nulla di buono: «Avevo sett’anni [...] stetti cinque anni con lui, e ne riportai parecchie nerbate e una perfetta conoscenza dell’ortografia, nessuna ombra del latino [...] pochi barlumi di storia non insegnata; e poi svogliatezza, stizza, noia, persuasione interna di non essere buono a nulla». Nel 1821 frequentò il collegio Zuccagni Orlandini di Firenze, uno dei migliori del Granducato, dove rimase circa dieci mesi; incontrò Andrea Francioni, il suo padre-maestro. Un momento fondamentale per la sua formazione intellettuale. «Nella sua scuola non si sentivano urli né strepiti, non carnificine, né invidie [...]. Lo studio era diventato un divertimento; perfino quello della lingua latina [...]. Dieci mesi stetti con lui, ma mi bastarono per sempre». Finito l’anno scolastico, l’istituto chiuse e Giuseppe dovette trasferirsi, nel novembre del 1822, nel Seminario e Collegio Vescovile di Pistoia; inserito nella classe di "umanità", corrispondente al nostro attuale liceo, dopo un breve periodo, nove mesi, ne uscì con un attestato abbastanza lusinghiero, che però non ci dice nulla sulla sua formazione culturale. Il padre del poeta, Domenico, non soddisfatto dell’esperienza pistoiese, riuscì ad inserirlo, nell’estate del 1823, nel prestigioso Real Collegio Carlo Lodovico di Lucca. L’istruzione ricevuta nel Collegio Vescovile di Pistoia era stata talmente carente, che il giovane, «docile, ubbidiente e studioso», dovette riprendere gli studi da un gradino più basso, dalla classe di grammatica. L’esperienza lucchese fu certo importante per il giovane, che ebbe modo di conoscere una nuova realtà, diversa da quella toscana, visto che Lucca a quell’epoca era la capitale di un piccolo ducato. Nei due anni circa, 1823-1825, in cui il Giusti rimase a Lucca, si esercitò, senza riserve, nella versificazione, inviando al padre sonetti dal gusto epico-lirico, frutto più degli studi accademici della scuola che della sua vera natura creativa. A sedici anni, siamo nel 1825, scrisse al padre, polemizzando con il gusto letterario del momento e, con un impeto radicale irriverente, si scagliò contro il romanticismo foscoliano. «È inoltre sorto in oggi, un certo entusiasmo per certe cose che fanno vomitare. Vi è [...] un picciolo opuscoletto, ossia raccolta di lettere di un certo Jacopo Ortis, le quai se tu leggi sentiraivi che tratto tratto, vi sono delle cose che, al dire dei moderni, incantano, le quai sarebbero, mi sparpaglierei il cervello quando penso ecc.; [...] Miseri farnetici! Io vi compatisco; leggete, leggete Botta piuttosto che quella veramente corbelleria di Ortis, leggete Botta, e troverete [...] non sparpagliamenti di cervello [...], ma descrizioni di battaglie, e sparpagliamenti di eserciti, anzi di stati, anzi di nazioni, ed anzi quasi metà del mondo. Che importa a noi se un corbello, un pazzo, vuole per amore sparpagliarsi il cervello [...]». Il ribelle, il contestatore, apprese pochissimo, anche in questo collegio: sufficiente in italiano, ma debole in latino. Tornato in famiglia, a Montecatini, si mise a studiare per prepararsi all’esame d’ammissione all’Università di Pisa, dove s’iscrisse, «di contraggenio» alla Facoltà di Diritto, nel novembre del 1826. Il periodo universitario del Giusti Per tre anni, Giuseppe Giusti, lontano dalla famiglia, frequentò a Pisa salotti, bettole, biliardi, teatri, casini e, soprattutto il famoso caffè dell’Ussero, dove improvvisava, a braccio, “scherzi”, “rabeschi”, tra gli applausi e i consensi della gente. Oppresso dai debiti e infiacchito dalla vita bohémienne, sostenne solo l’esame di filosofia. Richiamato dal padre, a Pescia, dove si era trasferita la famiglia, si annichilì nell’ozio e nella noia, solo l’amore riuscì a rischiarare l’orizzonte grigio della vita di paese. Allacciò una relazione amorosa, protrattasi fino al 1836, con la signora Cecilia Piacentini di Pescia: fu un amore travolgente e corrisposto, non solo fatto di poesie e sospiri. «I miei passi andavano piuttosto verso i giardini di Valchiusa, che verso gli orti del Berni». Nella prima metà di novembre del 1832 il Giusti tornò a Pisa per riprendere gli studi interrotti da tre anni. Aveva fatto con il padre un patto solenne: avrebbe studiato sul serio e nei tempi dovuti, ma le cose non andarono proprio così. Una sera, di febbraio, nel 1833, al Teatro dei Ravvivati (ora Teatro Rossi) di Pisa, molto frequentato dagli studenti universitari, in onore della cantante Rosa Bottrigari, famosa per le sue idee liberali, si distribuirono delle poesie, che dettero nell’occhio agli agenti di polizia. Rosa Bottrigari era giunta a Pisa da Bologna; e quella sera si presentò in scena, a fianco del famoso tenore Poggi, con una ghirlanda di fiori tricolore. Fu un tripudio, un delirio di urla, inneggianti all’Italia libera. Il rumore di quella serata giunse a Firenze: Giusti, con altri compagni, venne invitato dalla polizia a fornire spiegazioni in proposito. Seppe rispondere efficacemente all’auditore Lami, negando di trovarsi al teatro, nella sera incriminata. «Come non eravate al teatro, – gli rispose il commissario – se trovo il vostro nome nella lista degli accusati?». «Può essere – replicò – che i birri e le spie mi abbiano tanto nell’animo, da vedermi anche dove non sono. Quella sera l’ho passata in casa Mastiani». Dire la verità non lo salvò dal divieto di presentarsi all’esame di laurea, che sostenne invece, più tardi, nel 1834, nella sessione giugno/settembre. Il soggiorno pisano e non solo questo incidente;– basti pensare agli echi della rivoluzione parigina del luglio del 1830, i fatti di Modena del 1831 –, furono determinanti per la formazione della sua personalità e della sua poetica. Ne sono prova le sue poesie La ghigliottina a vapore (1833), in cui vengono scagliate le prime invettive contro Francesco IV di Modena, e Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833). In ambedue, ma specialmente nella seconda, Giusti affila la sua arma più efficace: l’ironia. L’ambiente fiorentino Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza si stabilì a Firenze. La città non gli fu, dapprima, un soggiorno gradito: il clima non gli si confaceva e pare non gli si confacesse molto neanche il carattere dei fiorentini, che accusava, fra l’altro, di farsi pagare troppo la «gentilezza attica». Firenze, comunque, non mancava di svaghi; c’era sempre un gran via vai di stranieri, francesi e inglesi: numerosi i ritrovi eleganti, i ricevimenti, i balli. «Ogni sera grandi scialacqui e grandi spese: rosbif divorati, bottiglie di Sciampagna asciugate». Firenze era in realtà il soggiorno ideale per lui, il miglior osservatorio ch’egli potesse desiderare ai fini della sua arte, della sua satira; era l’ambiente più rispondente al suo gusto di vivere, immerso nel mondo letterario, politico e galante. La città era uno dei centri più cosmopoliti d’Italia, più della stessa Roma; vi giungevano gli intellettuali e gli artisti più affermati d’Europa. Non c’era libertà di stampa, ma c’era libertà di lettura e di «chiacchiera». Non si poteva stampar nulla senza subire i rigori di una censura cinica e intransigente, ma chi andava a stampare fuori dei confini, aveva poche noie da temere, mentre le opere clandestine più eversive entravano nel Granducato di contrabbando e vi si diffondevano, a dispetto della polizia. A Firenze, la diffusione dei versi di Giusti era ristretta alla cerchia degli amici, ai quali il poeta recitava direttamente i suoi lavori (accettando suggerimenti e correzioni). Di ritorno da un soggiorno a Siena, in casa di amici, Giusti era giunto, all’alba a Firenze, molto affaticato. Entrato in casa, si era gettato sul letto e si era addormentato profondamente. Dopo poco, svegliatosi all’improvviso, vide la camera piena di fumo e sentì un gran puzzo di carta bruciata. «Arrivai ad estinguere il fuoco senza chiamare aiuto. [...] Molti libri miei e d’altri sono perduti irreparabilmente; appunti, abbozzi, studi di vario genere, e segnatamente note prese di proverbi e d’altre cose attenenti alla lingua sono andate in fumo. [...] Questi miseri rimasugli sono là tuttavia in un canto, e non ho cuore per ora di metterci le mani; pure bisognerebbe che me li togliessi dagli occhi, perché non posso ripensarci senza fremere dal fondo delle viscere». Nello stesso anno, a Monsummano, assistette con amore l’amatissimo zio Giovacchino fino alla morte, che sopraggiunge nel maggio del 1843. Non erano passati pochi mesi, che un nuovo colpo aggravò la salute del poeta. Una domenica di luglio, in via dei Banchi, a Firenze, mentre passava davanti al Palazzo Garzoni, lo assalì un gatto infuriato. «Mi graffiò e mi morse senza intaccarmi la pelle, bensì mi lasciò nella gamba sinistra l’impronta dei denti [...]. A dirtela, ebbi una paura del diavolo, non lì nel momento, ma dopo; e per l’impressione ricevuta e per quello che poteva accadere, perché m’accertai che era idrofobo». L’idrofobia gli aveva fatto sempre, fin da ragazzo, un terrore indicibile. Alla fine di gennaio del 1844 egli poté finalmente partire con la madre per Roma e Napoli. Si trattenne a Roma pochi giorni, data la pessima stagione; il 9 era già a Napoli e prese alloggio in Via Toledo. Fu accolto con tanta cortesia, la fama delle sue poesie lo aveva preceduto, «che dopo pochi giorni gli pareva d’esser nato là». Il Giusti si trattenne a Napoli oltre un mese: il tempo «diabolico» gli impedì di godersi in pieno la vista del Vesuvio, tutto avvolto da una nebbia così folta che, per quanto il vulcano fosse in eruzione, non gli permise di vedere «neppure un razzo di fuoco». Il poeta, a Napoli, strinse molte amicizie, prima fra tutte con Gabriele Pepe, che nel 1826 aveva avuto a Firenze il famoso duello con il Lamartine; con Carlo Poerio, poco dopo arrestato, quale complice dei fratelli Bandiera, e con il fratello di lui, Alessandro Poerio. Intanto, il male sconosciuto, che da più di un anno gli stava addosso, lo aveva agitato in un alternarsi di brevi riprese e di lunghe ricadute; quando credeva di essere lì per trovare un po’ di salute, era a un tratto ricacciato nelle sofferenze e nell’angustie morali. Aveva dovuto mettere da parte gli studi e pensare, più concretamente, alla propria salute. Ma un altro nemico, a suo dire, gli turbava, non poco, il sonno. I suoi scherzi, i suoi «ghiribizzi», appunto perché in gran parte affidati alla diffusione orale, o a quella di manoscritti ricopiati molte volte, e non sempre con diligenza, subivano spesso modificazioni e tagli, o si allungavano in appendici. La vicenda letteraria «L’ultima batosta – scriveva al Vannucci, il 14 settembre 1844 – avuta a Livorno fu così inaspettata e così fiera, che io credeva di dover finire inchiodato in un fondo di letto». A sua insaputa, nel 1844 a Lugano, venivano pubblicate alcune sue poesie, ad opera di un anonimo editore, forse ben intenzionato, ma non troppo scrupoloso (Poesie italiane tratte da una stampa a penna, Italia, 1844). L’edizione, curata da Cesare Correnti che ne dettò la prefazione, fu pubblicata a spese del Ciani, presso la Tipografia della Svizzera Italiana a Lugano; ma, dapprima, fu attribuita, erroneamente, alle cure di Giuseppe Mazzini. Giusti se ne risentì vivacemente e infatti, subito dopo, dava alle stampe i Versi nell’edizione di Livorno (Versi di Giuseppe Giusti, Livorno, Tipografia Bertani e Antonelli, 1844), nella cui dedica alla marchesa Luisa D’Azeglio manifestava il suo sdegno contro lo «stampatore sfrontato e disonesto». Del libretto mandò molte copie agli amici, dolente di non aver potuto produrre qualcosa di più ampio. Per consolidare la sua fama di poeta, nell’anno seguente, 1845, il Giusti fece pubblicare dalla tipografia Fabiani, di Bastia, trentadue dei suoi «scherzi». Questa raccolta non portava il nome dell’autore, ma ormai tutti erano a conoscenza della paternità di quei versi (Versi, Bastia, Tipografia Fabiani, 1845). Nell’agosto del 1845, convinto dall’amico Giovanbattista Giorgini, il poeta di Monsummano si decise a partire, in compagnia della marchesa D’Azeglio e di Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni, per Milano, «...senza un cencio di passaporto, senza un soldo in tasca». Grande curiosità e interesse suscitò l’arrivo a Milano del Giusti. I versi pubblicati a Bastia correvano per tutte le mani, rispondendo alle attese dei sentimenti di libertà e d’indipendenza che pervadevano il paese da sud a nord. Il Manzoni accolse il «toscano Aristofane» come un suo pari e lo volle ospite per tutto il tempo del suo soggiorno in Lombardia (circa un mese): «Che pace – scriveva il poeta – che amore, che buona intelligenza tra loro! In Alessandro non so se sia maggiore la bravura o la bontà; l’unico che mi rammenti d’aver conosciuto sul taglio di lui, è il Sismondi». A Milano il poeta conobbe gli scrittori e gli intellettuali della cerchia manzoniana: Tommaso Grossi, Giovanni Torti, il Rosmini, gli Arconati, i Litta-Modigliani, Luigi Rossari. Il Manzoni aveva apprezzato il Giusti prima ancora di conoscerlo personalmente. Rispondendo ad una lettera del Giusti (in data 8 novembre 1843), che gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie, così si esprimeva il Manzoni: «Son chicche che non possono esser fatte che in Toscana, che da Lei; giacché, se ci fosse pure quello capace di far così bene imitando, non gli verrebbe in mente d’imitare». Era la prima consacrazione letteraria avuta dal poeta da un grande scrittore. Dopo le produzioni poetiche del 1844 e del 1845, pubblicò una terza edizione nel 1847 (Nuovi versi di Giuseppe Giusti, Firenze, Tipografia di T. Baracchi, 1847) che ebbe un successo strepitoso di pubblico e di mercato. Scriveva in quei giorni il Giusti alla marchesa Luisa D’Azeglio: «Le cose nuove mi consolano molto. Sapete che anch’io coi miei piccoli ferri ho cercato di tener vivo il fuoco quando pareva semispento [...]. Il paese da morto che era si è riscosso generalmente». L’impegno politico Gli ultimi anni della vita di Geppino (1848-1850), come affettuosamente lo chiamava Alessandro Manzoni, furono contrassegnati dalla grande illusione di un’Italia finalmente libera e dalla disillusione, dovuta al mancato accordo tra i sovrani italiani, nella conduzione della guerra d’indipendenza: prevalsero le ragioni di stato e i conflitti tra liberali e democratici. Ci fu, da parte del poeta, un timido affacciarsi alla finestra della politica: nel 1847 viene eletto, a furore di popolo, maggiore della guardia civica di Pescia, e nel 1848 deputato all’Assemblea legislativa toscana. Si chiuse definitivamente questo incidente di percorso, in quanto la politica, nel suo aspetto più pragmatico della parola, era estranea alla visione del mondo del Giusti. Unica nota lieta, in questo periodo, la nomina (nel 1848) del Giusti ad accademico della Crusca. Benché amico di molti accademici, il Giusti non era mai stato tenero con le accademie, contrario a tutto ciò che potesse «...limitare in qualche modo, anco indiretto, il libero esercizio delle sue facoltà intellettuali». Morì appena quarantenne, il 31 marzo 1850 nel palazzo dell’amico carissimo Gino Capponi, in via San Sebastiano, soffocato dal sangue per la rottura di un tubercolo polmonare. Le opere Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido verso e da un umorismo pungente e venate talvolta da una sottile malinconia, hanno come cornice la piccola provincia toscana. Furono pubblicate dapprima in forma sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. La poesia più nota è Sant’Ambrogio (nella quale il poeta dichiara apertamente le proprie posizioni anti-austriache, rivolgendosi direttamente a una “Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco” con evidente riferimento all’autorità imperiale, ed affermando vicinanza umana e politica ad Alessandro Manzoni, padre del citato “compagno figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi”). Altre composizioni molto note sono: Il re Travicello, Il brindisi di Girella, satira della “morale” dei voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero, acre satira anticlericale, La chiocciola. Tra le opere in prosa sono da ricordare le Memorie inedite, che furono pubblicate solo nel 1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana, e una raccolta di Proverbi toscani, pubblicati anch’essi postumi (1853). Assai interessante il ricco Epistolario, dal quale emerge la sua viva parlata toscana e l’adesione alle tesi manzoniane sulla lingua. Archivio personale * L’archivio della famiglia è depositato presso l’Archivio di Stato di Pistoia. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Giusti

Alfonso Gatto

Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976) è stato un poeta e scrittore italiano. Biografia Nacque a Salerno il 17 luglio del 1909. La sua infanzia e la sua adolescenza furono piuttosto travagliate. Fratello del pittore Alessandro Gatto, compì i primi studi al liceo classico Torquato Tasso della sua città natale, mostrandosi portato per le materie letterarie, in particolare l’italiano, e poco incline alla matematica. Al liceo scoprì la propria passione per la poesia e la letteratura. Nel 1926 si iscrisse all’Università di Napoli che dovette tuttavia abbandonare qualche anno dopo a causa di difficoltà economiche. Sposò la figlia del suo professore di matematica, Agnese Jole Turco, con la quale, all’età di 21 anni, fuggì a Milano. Ebbero due figlie, Marina e Paola. Nel capoluogo lombardo, dove risiedette dal maggio del 1934, tra i suoi amici più assidui vi furono Cesare Zavattini, Alessandro Tofanelli, Leonardo Sinisgalli, Orazio Napoli e Domenico Cantatore, coi quali frequentava i caffè cittadini. La sua vita fu piuttosto irrequieta e movimentata, anche dal punto di vista lavorativo: dapprima commesso di libreria, poi istitutore di collegio, correttore di bozze, giornalista, insegnante. Nonostante nel 1935 avesse partecipato ai Littoriali della cultura e dell’arte dei Gruppi universitari fascisti, già nel 1936 fu arrestato per antifascismo e trascorse sei mesi nel carcere di San Vittore a Milano. Durante quegli anni Gatto collaborò ai più innovatori periodici e riviste di cultura letteraria (Italia letteraria, Rivista Letteratura, Circoli, Primato, Ruota). Nel 1938, con la collaborazione di Vasco Pratolini, fondò la rivista Campo di Marte per commissione dell’editore Vallecchi, ma il periodico durò un solo anno. Fu comunque questa una esperienza significativa per il poeta, che ebbe modo di cimentarsi nella letteratura militante di maggior impegno. Campo di Marte (il cui primo numero uscì il 1º agosto 1938) era nato come quindicinale di azione letteraria e artistica, con l’intento di educare il pubblico a comprendere la produzione artistica in tutti i suoi generi. La rivista si ricollegava al cosiddetto ermetismo fiorentino. Nel 1941 Gatto ricevette la nomina a ordinario di Letteratura italiana, per “chiara fama”, presso il Liceo Artistico di Bologna e iniziò pure una collaborazione con la rivista Primato di Giuseppe Bottai, sulla quale pubblicò con continuità poesie e recensioni letterarie. Nel 1944, iscrittosi al PCI, iniziò a collaborare a Rinascita e, dopo la liberazione di Milano, nell’aprile 1945, all’Unità.Fu poi inviato speciale de L’Unità assumendo una posizione di primo piano nella letteratura di ispirazione comunista. Nel 1951 si dimise dal partito e diventò un comunista “dissidente”. Il poeta, nel 1946, incontrerà la donna più importante della sua vita, la pittrice triestina Graziana Pentich per la quale abbandonò la moglie e le figlie e da cui ebbe due figli, Teodoro e Leone. La vita del poeta sarà segnata, nel 1963, dal dolore per la scomparsa di Teodoro, mentre Leone morirà soltanto tre mesi dopo la morte del poeta. L’8 marzo del 1976 Gatto si trovava a Grosseto e si mise in viaggio lungo l’Aurelia diretto a Roma, a bordo di una Mini Minor alla cui guida si trovava Paola Maria Minucci. L’auto finì fuori strada nei pressi della Torba di Capalbio e il poeta fu trasportato d’urgenza a Orbetello dove, per via delle condizioni ormai critiche, si decise di caricarlo sull’ambulanza in direzione dell’Ospedale di Grosseto. Alfonso Gatto spirò alle ore 16:10 mentre si trovava ancora a Orbetello. È sepolto nel cimitero di Salerno. Sulla sua tomba, che ha un macigno per lastrone, è inciso il commiato funebre dell’amico Eugenio Montale: Formazione e poetica L’ermetismo riconosce in Alfonso Gatto uno dei più accesi tra i suoi protagonisti. Non si sa molto dei suoi primi anni a Salerno, che tanta importanza hanno senza dubbio avuto nella sua formazione, come pure si ignorano le sue prime letture, i suoi primi incontri (tra gli altri, con il critico letterario Francesco Bruno, che lesse per primo e ordinò le sue poesie), le sue amicizie. Le notizie biografiche sono scarse e sono le solite: gli studi, l’arrivo all’Università non terminata, la vita irrequieta, i vari lavori intrapresi. Fa eccezione la notizia dell’uscita del suo primo volumetto nel 1932, Isola, nel quale i maggiori lettori del tempo riconobbero subito il segno di una voce nuova e vera. Quando nel 1932 Giuseppe Ungaretti pubblica Sentimento del tempo, Gatto, appena nato alla poesia, viene subito inserito nel capitolo di quel momento. Con Isola, Gatto inizia la sua esistenza di poeta e un discorso che si concluderà solamente con la sua tragica morte quarantaquattro anni dopo. Isola è il testo decisivo per il costituirsi di una “grammatica ermetica” che verrà definita dal poeta stesso come ricerca di «assolutezza naturale». Il linguaggio è rarefatto e senza tempo, allusivo, tipico di una poetica dell’"assenza" e dello spazio vuoto, ricco di motivi melodici. E saranno proprio il senso dello spazio e l’abbandono alla melodia gli elementi costanti di Isola, così come più tardi delle altre raccolte di poesie. Ad Isola segue Morto ai paesi, una quarantina di componimenti in versi. Non si evincono grandi differenze tematiche e stilistiche rispetto ad Isola, anzi vi è una comune evocazione di immagini plastiche, idilliache ed oniriche, e risalta il topos letterario della memoria. Alcune atmosfere e scelte lessicali suggeriscono stilemi petrarcheschi. Non è un caso che Giovanni Pozzi, ne La poesia italiana del Novecento, abbia incluso Alfonso Gatto tra i cosiddetti petrarchisti dell’ermetismo, data l’influenza del poeta proto-umanista sui filoni poetici della prima metà del XX secolo. Anche in Arie e ricordi, che rappresenta la prima stagione del poeta salernitano (1929-1941), le sue figurazioni ruotano intorno alla memoria, riaffiorano dalle inquietudini e dai sogni adolescenziali. La successiva produzione lirica risentirà dell’esperienza bellica. La morte, topos trasfigurato nei componimenti del passato, si disvela nelle sue connotazioni più drammatiche. Gatto si avvicina al dolore degli uomini e nella successiva raccolta, Il capo sulla neve, il poeta registra le esperienze degli anni 1943-1947. Nel 1950 Mondadori pubblica lo Specchio, volume che raccoglie le poesie scritte durante trentacinque anni di attività. La storia delle vittime in cui Gatto trasferì Amore della vita e Il capo sulla neve, arriva dopo il volume Poesie che raccoglie le liriche composte dal 1929 al 1941. Nello Specchio vengono incluse le Nuove poesie del 1950 in cui erano state inserite le liriche composte dal 1941 al 1949. Esse comprendevano sia i componimenti della Resistenza di matrice civile e politica, sia quelli concernenti la vita privata e l’esperienza amorosa di Gatto. In Poesie d’amore risulta marcata l’ispirazione al poeta Rimbaud, tanto amato dal Nostro. Ma la raccolta di poesie che ha attratto maggiormente l’attenzione della critica e dei lettori, è La forza degli occhi (1950-1953). In essa si fondono ermetismo e surrealismo. Questo volume segna la raggiunta maturità poetica di Gatto. La visionarietà diviene il mezzo espressivo capace di rivelare il talento del poeta. Alla raccolta Osteria flegrea, poesie composte dal 1954 al 1961, segue la raccolta più corposa della sua intera produzione, Rime di viaggio per la terra dipinta (1968-1969), rime scritte e raffigurate pittoricamente in acquarelli. In esse si coglie un “senso di insistito giuoco metrico-stilistico e dell’immaginazione (o piuttosto dell’intelletto) mentre un ruolo quasi secondario viene affidato al sentimento” Il motivo dell’amore Il motivo dell’amore è cantato in tutti i modi e percorso in ogni direzione e, anche se a tratti ha intonazioni classicheggianti, non perde mai il valore fonico della parola che diventa un momento a sé di suggestione. Nel periodo che va dal 1940 al 1941 vi è un rifacimento delle poesie precedenti che faranno parte di una raccolta edita da Vallecchi nel 1941 sotto il nome di Poesie che rimarranno immutate fino alla stesura del 1961 quando, dando un ordine maggiore allo stesso volume esse toccheranno il punto di maggiore "cantabilità" nella poesia di Gatto. Una delle immagini tra le più vive della poesia contemporanea possiamo trovarla nella poesia Oblio dove il poeta esprime la gioia della vita fatta memoria e festa alle quali egli sente di appartenere: Tutto si calma di memoria e resta il confine più dolce della terra, una lontana cupola di festaIn questi versi si assiste al dileguarsi dell’analogia stretta dei primi libri e in Amore della vita, il libro del 1944, il poeta riuscirà a esprimere una freschezza insolita in un momento di retorica dedicata alla Resistenza. Gatto, infatti, aderisce alla poesia della Resistenza, commosso dallo spirito civile e politico degli italiani e nella raccolta successiva, Il capo sulla neve, egli avrà parole di forte commozione per i “Martiri della Resistenza” ed esprimerà nelle poesie una assorta meditazione che ha il raro dono dell’immediatezza. Gatto è dunque un poeta di natura e d’istinto che ha conosciuto durante la guerra e nel dopoguerra un serio rinnovamento sia nei contenuti che nella forma aprendosi a strutture narrative più complesse che fondono autobiografismo lirico e partecipazione storica. Nello scorrere l’ultima produzione di Gatto, Rime di viaggio per una terra dipinta, e Desinenze, opera postuma uscita un anno dopo la sua morte, resta l’immagine di un poeta coinvolto dal tumulto della vita, ma sempre lieto di fissare nella memoria ogni emozione in una lingua ricca di motivi e di sorprese nuove. L’esperienza milanese Alfonso Gatto appartiene a quel folto gruppo di intellettuali provenienti dal Sud Italia, tra i quali il celebre critico d’arte Edoardo Persico ed Elio Vittorini, che negli anni trenta, giunsero a Milano, una Milano centripeta, punto di confluenza delle intelligenze più fervide dell’epoca. Dal 1936 al 1938 Gatto collaborò al periodico Casabella con una serie di articoli nella rubrica Cronaca dell’architettura; egli partiva dai temi concernenti l’architettura per poi trattare di argomenti di cultura generale, mentre gli articoli di fondo erano tenuti da Giuseppe Pagano. Edoardo Persico fu una figura importantissima nella vita del poeta salernitano, e, quando morì, nel 1945, lasciò un patrimonio di idee nuove e illuminanti di cui faranno tesoro Raffaello Giolli e Alfonso Gatto. Infatti, entrambi tentarono di sviluppare e fissare, quella relazione artistica che Persico aveva instaurato tra Frank Lloyd Wright e Paul Cézanne, vale a dire, una palese identificazione tra architettura organica e impressionismo. La ricerca intellettuale di Gatto lo condurrà a scrivere Prefazione a Frank Lloyd Wright, Architettura organica in cui Gatto intesse una immagine di Wright come architetto-poeta o, per usare un’espressione con cui lo stesso architetto statunitense aveva intitolato una sua opera, come “Disconosciuto legislatore del mondo”. "Wright è più di un architetto", scrive Gatto, “gli si deve riconoscere una statura di creatore– l’unica di architetto che oggi ci sia nel mondo– congiunta ad un’effettiva forza di tecnico e ad una ispirata passione umanitaria”. Alfonso Gatto pittore e critico d’arte La profonda sete di conoscenza condusse il poeta a soddisfare la propria attitudine alla pittura, con la realizzazione di vari acquerelli e disegni, nonché alla elaborazione di numerosissimi Cataloghi per pittori di grande caratura, come Ottone Rosai, Renato Guttuso, Filippo de Pisis, Giuseppe Zigaina, Mino Maccari, Corrado Cagli. La compagna Graziana Pentich, ha raccolto negli anni Novanta, in un volume intitolato “I colori di una storia”, disegni, dipinti poesie di Gatto, unitamente alle sue opere di pittura e ai teneri disegni e acquerelli del figlioletto Leone. In esso è scandita la storia di una vita in cui l’arte risulta essere il linguaggio quotidiano più congeniale ad esprimere e raccontare le esperienze dei tre protagonisti, dalla nascita alle prime parole di Leone, ai continui spostamenti fisici del poeta, il quale incorpora l’una dentro l’altra le città conosciute lungo il cammino in un’unica grande città che ha l’anima del Sud. Nel racconto sono molti gli autoritratti del poeta, realizzati tra il 1946 e il 1958, da lui stesso definiti “autoritratti-maschera”: l’autoritratto sul giornale Avanti!, quello al Craja (il caffè milanese, ritrovo di artisti e intellettuali negli anni Trenta e Quaranta, situato in Piazzetta Filodrammatici vicino al Teatro alla Scala) e i tre autoritratti detti “auto istantanee”, dove Gatto si raffigurò come un clown. La Pentich parla a tal proposito di una “coincidenza di sentimenti con i temi circensi sublimati da Picasso nelle figure del suo periodo blu e rosa”. L’eclettismo di Gatto è anche il risultato della sua personale concezione delle Arte, concezione per certi versi rinascimentale, in contrasto con quella a lui contemporanea che voleva la separazione tra i vari ambiti artistici. Opere principali Poesia Isola, Napoli 1932 Morto ai paesi, Modena 1937 Poesie, Milano 1939 (nuova edizione, Firenze 1943) L’allodola, Milano 1943 La spiaggia dei poveri, Milano 1944 Amore della vita, Milano 1944 La spiaggia dei poveri, Milano 1944 (nuova edizione Salerno 1996) Il sigaro di fuoco. Poesie per bambini, Milano 1945 Il capo sulla neve, Milano 1947 Nuove poesie 1941-49, Milano 1949 La forza degli occhi, Milano 1954 La madre e la morte, Galatina 1959 Poesie 1929-41, Milano 1961 Osteria flegrea, Milano 1962 Il vaporetto. Poesie, fiabe, rime, ballate per i bambini di ogni età, Milano 1963 (nuove edizioni Salerno 1994 e Milano 2001) La storia delle vittime, Milano 1966 Rime di viaggio per la terra dipinta, Milano 1969 Poesie 1929-69, Milano 1972 Poesie d’amore (1941-49; 1960-72), Collezione Specchio, Milano, Mondadori, 1973, ISBN 978-88-04-10585-5. Lapide 1975 ed altre cose, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1976. Desinenze, Milano 1977 Poesie, a cura di F. Napoli, Milano, Jaca Book, 1998, ISBN 978-88-16-52009-7. Tutte le poesie, a cura di Silvio Ramat, Collana Oscar grandi classici n.103, Milano, Mondadori, 2005, ISBN 978-88-04-53347-4. Tutte le poesie (nuova edizione ampliata), a cura di Silvio Ramat, Collana Oscar moderni n.103, Milano, Mondadori, 2017, ISBN 978-88-04-65960-0. Prosa La sposa bambina, Firenze, 1943; nuova ed., Firenze 1963; Salerno, Roma, 1994 La coda di paglia, Milano, 1948; nuova edizione, Salerno, Roma, 1995 Carlomagno nella grotta. Questioni meridionali, Milano, 1962; nuov ed., Firenze 1974 (come Napoli N.N.); Salerno, 1993 Le ore piccole (note e noterelle), Salerno, 1975 Parole a un pubblico immaginario e altre prose, Pistoia, 1996 Il signor Mezzogiorno, Napoli, 1996 Il pallone rosso di Golia. Prose disperse e rare e l’inedito «Bagaglio presso», Milano, 1997 L’aria e altre prose, Pistoia, 2000 Diario d’un poeta, Napoli, 2001 La pecora nera, Napoli, 2001 La palla al balzo– un poeta allo stadio, Limina, 2006 Pensieri, a cura di F. Sanguineti, Torino, Nino Aragno, 2016 Teatro Il duello, Milano 1944; nuova ed., Salerno, 1995 Filmografia Alfonso Gatto ha anche avuto diverse parti in alcuni film. In Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano aveva la parte di un conduttore di treni. Altre parti ha avuto in due film di Pier Paolo Pasolini: in Il Vangelo secondo Matteo (1964) recitava la parte dell’apostolo Andrea, in Teorema (1968) la parte di un dottore. Altre parti ha avuto in Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi dove era Nocio e in Caro Michele (1976), di Mario Monicelli, tratto dall’omonimo romanzo di Natalia Ginzburg, dove interpretava il padre di Michele. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Alfonso_Gatto

Giovanni Giudici

Giovanni Giudici (Porto Venere, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011) è stato un poeta e giornalista italiano. Cresciuto nel borgo marinaro di Le Grazie vicino a Porto Venere, è stato un aderente alla linea della poesia anti-novecentesca. Biografia Figlio di Gino Giudici, impiegato presso vari enti privati, e Alberta Giuseppina Portunato, maestra elementare nella scuola dell’isola Palmaria e poi in quella delle Grazie, il poeta è il quartogenito e l’unico sopravvissuto di cinque figli tutti morti poco dopo la nascita o al momento del parto. Gli anni dell’infanzia e i primi studi Alle Grazie, dove il nonno paterno, discendente da una famiglia di piccoli possidenti di Casale Marittimo (Pisa), esercita la professione di farmacista, abitano anche i nonni materni e Giovanni trascorre i primi anni dell’infanzia nel paese natio tra la casa dei genitori e quella dei nonni ricevendo dalla madre una seria educazione cattolica. La morte della madre, avvenuta l’8 novembre 1927 per una eclampsia da parto, lascia in Giovanni una “voragine di privazione” che anziché colmarsi si allargherà col trascorrere degli anni. Nel 1928, il padre Gino si risposa con Clotilte Carpena, dalla quale avrà cinque figli, e nel 1929 si trasferisce a Cadimare aumentando così la sofferenza di Giovanni che deve allontanarsi dalle Grazie e dai nonni. A Cadimare egli frequenta presso un Istituto di suore l’asilo e, avendogli il padre fatto saltare una classe, la seconda elementare, ma verso la fine degli anni trenta il padre si trasferisce con i suoi familiari alla Spezia e sarà questo un altro periodo difficile per Giovanni che risentirà della ristrettezza economica della famiglia e dei ricatti sentimentali ai quali lo sottopongono, pur a fin di bene, i nonni paterni e i parenti della madre che lo vorrebbero in affido. Alle Grazie Giovanni riuscirà a tornare nel 1932 e a frequentare per due trimestri la quarta elementare fino a quando il padre Gino, impiegato presso l’Istituto ISTAT e in seguito al Ministero della guerra, si trasferisce, nel 1933, a Roma e, in attesa di un definitivo alloggio, colloca il figlio presso il Pontificio Collegio Pio X dove Giovanni rimane fino alla primavera del 1935 terminando la quinta elementare e la prima ginnasiale. Durante l’estate però gli è concesso di trascorrere le vacanze alla Grazie presso le famiglie dei nonni e della zia materna Angela. Gli studi superiori Nel 1935, quando la famiglia ottiene l’assegnazione di un appartamento dell’Istituto Case Popolari, il padre gli fa lasciare il collegio ed egli prosegue gli studi presso l’Istituto Quinto Orazio Flacco a Monte Sacro.Risalgono a questo periodo i primi tentativi poetici tra i quali rimane un sonetto, ispirato al monumento che si trova sul piazzale di Porta Pia, intitolato Il bersagliere. La famiglia intanto si trova sempre in gravi difficoltà economiche e Giovanni riceverà in dono i libri scolastici da alcune sue insegnanti tra le quali Letizia Falcone che diventerà in seguito nota ispanista e traduttrice di Cervantes e di Teresa di Lisieux. Scrive in questo periodo altri componimenti poetici, sempre in forma di sonetto, dedicati ad una compagna di scuola. Risalgono a questo periodo le sue numerose letture extrascolastiche che, non avendo i mezzi per comprarsi i libri, compie prendendoli in prestito preso la Biblioteca comunale. Nel 1939 si iscrive al Liceo classico statale Giulio Cesare presso la sezione staccata di Monte Sacro e al termine della seconda liceo, con la media di otto decimi, può affrontare direttamente l’esame di maturità e per pagarsi le lezioni di matematica dà, a sua volta, lezioni di greco e latino. L’università e i primi racconti Su insistenza del padre, nel 1941, si iscrive alla facoltà di Medicina ma è attirato da quella di Lettere dove si reca spesso ad ascoltare le lezioni. Proprio alla fine del 1941 risalgono i primi contatti con i militanti dell’antifascismo a Monte Sacro e in seguito, sempre più frequenti, quelli con i gruppi romani e del PCI. Nella primavera del 1942 decide di cambiare il corso di studi e si iscrive alla Facoltà di Lettere dove frequenta i corsi di famosi maestri come Giulio Bertoni di Filologia romanza, Alfredo Schiaffini di Storia delle Lingue, Gino Funaioli di Letteratura latina, Natalino Sapegno di Letteratura italiana, Antonino Pagliaro di Glottologia, Giuseppe Cardinali di Storia romana, Pietro Paolo Trompeo di lingua e letteratura francese, Gennaro Perrotta di letteratura greca. Si ampliano le sue conoscenze letterarie e le letture diventano più varie. Risale a questo periodo, come il poeta stesso ci racconta, le letture di Rilke e di Campana, la lettura assidua della rivista Primato di Bottai e stringe amicizia con un suo compagno di studi, Ottiero Ottieri. Risalgono al 1943 i suoi primi racconti e un gruppo di poesie che gli vengono però rifiutate. Legge una poesia di Sereni sul settimanale Tempo edito da Mondadori e, sempre sullo stesso settimanale qualche poesia di Ungaretti, Quasimodo, Penna e Gatto. Il periodo della guerra Nel periodo della guerra, per non essere richiamato al servizio militare, trova rifugio presso la casa di un amico dove rimane nascosto e dopo l’8 settembre partecipa, all’interno del quartiere dove abita, all’attività clandestina del Partito d’Azione e fonda, insieme ad un gruppo, il giornale “La nostra lotta”. Il 6 gennaio 1944 riesce ad entrare nella Guardia di Finanza della Città aperta di Roma dove presta servizio per sette mesi e il 4 giugno assiste alla presa di Roma da parte dell’esercito statunitense. Riprende intanto gli studi interrotti e per aiutare finanziariamente la famiglia dà lezioni private. Conosce in questo periodo il sacerdote Ernesto Buonaiuti che era stato privato dell’insegnamento universitario per non aver voluto giurare fedeltà al regime fascista che gli offre di lavorare per qualche tempo per lui scrivendo a macchina sotto dettatura. Risale al luglio del 1944 il racconto L’odore d’acetilene e verso la fine dell’anno trova lavoro come garzone di cucina presso la caserma della Royal Air Force inglese ma presto, dietro raccomandazione si inserisce al Ministero dell’interno e viene assegnato alla Questura di Roma dove lavora per un po’ di tempo all’ufficio stampa. Pubblica nel frattempo, sulla rivista "1945" diretta dal Buonaiuti, due articoli sul pensiero di Charles Péguy e riesce, con i primi guadagni, ad acquistare Il Canzoniere di Saba. Continua a cimentarsi con il racconto e scrive Il colore blu della morte, Uomini a gara oltre ad alcune poesie e il 1º agosto dibatte una tesi di laurea, con il relatore Pietro Paolo Trompeo, in Letteratura francese sul poeta francese Anatole France, anche se avrebbe desiderato lavorare su Charles Baudelaire, e prima della fine dell’anno entra a far parte del PSIUP come segretario del circolo giovanile di Monte Sacro. Gli anni del dopoguerra Nella primavera del 1946 riesce a trascorrere un periodo di vacanza a Monte Sacro che sente sempre di più essere il paese che maggiormente ama. Cresce in lui, oltre il bisogno di poesia, il desiderio di mettere ordine nella sua vita, come avere un lavoro stabile, una famiglia e una casa, ma la sua situazione economica non glielo permette ancora. Continua a svolgere attività politica nello PSIUP e comincia a compiere i primi viaggi a Milano e a Torino, dove fa diverse importanti conoscenze e sul numero speciale del 2 giugno di “Rivoluzione Socialista”, il supplemento settimanale dell’"Avanti!", esce la sua prima poesia edita dal titolo Compagno, qualche volta. L’attività di giornalista Inizia nel 1947 la sua attività di cronista presso il quotidiano "L’Umanità" di Roma, venendo assunto come giornalista professionista il 1º gennaio 1948, col ruolo di capocronista. Alla chiusura del giornale, il 31 luglio dello stesso anno, Giudici passa alla redazione de "L’Umanità" di Milano. Durante questo periodo conosce Mario Picchi con il quale stringe una salda amicizia. Nel dicembre del 1947 ha l’occasione di ascoltare Thomas Stearns Eliot che legge i suoi versi nell’aula magna del Collegio Romano, avvenimento che lo riempie di entusiasmo. Nel frattempo ottiene l’abilitazione all’insegnamento nella scuola media. Nel 1949, grazie ad Alberto Frattini che aveva conosciuto ai tempi dell’università, riesce a pubblicare due liriche (Là dove gli angeli cantano, Sola caduta a infrangere) e un articolo su Saba sulla rivista Accademia e il 14 settembre su Il cittadino. Settimanale dell’Italia socialista propone un’inchiesta che riguarda i viaggi all’estero degli italiani. Negli anni collabora con vari giornali di sinistra, come l’Espresso, l’Unità e Rinascita. Legge in questo periodo l’opera di Piero Jahier (Ragazzo), che conoscerà a Milano nel 1963, e ne rimane molto colpito. Gli si offrono intanto tre proposte di lavoro, l’insegnamento in una scuola media di Velletri, l’assunzione nella redazione di “Paese Sera” e un impiego presso gli uffici romani dell’USIS (United States Information Service) che dipendono dall’ambasciata statunitense. Egli sceglie quest’ultimo, anche perché meglio retribuito, ed inizia l’attività come redattore del bollettino quotidiano da inviare ai vari giornali. Opere * Fiorì d’improvviso, Roma, Edizioni del Canzoniere, 1953. * La stazione di Pisa e altre poesie, Urbino, Istituto Statale d’Arte, 1955. * L’intelligenza col nemico, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1957. * L’educazione cattolica (1962-1963), Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963. * La vita in versi, Milano, Mondadori, 1965. * Autobiologia, Milano, Mondadori, 1969. * O Beatrice, Milano, Mondadori, 1972. * Poesie scelte (1957-1974), a cura di Fernando Bandini, Milano, Mondadori, 1975. * Il male dei creditori, Milano, Mondadori, 1977. * Il ristorante dei morti, Milano, Mondadori, 1981. * Lume dei tuoi misteri, Milano, Mondadori, 1984. * Salutz (1984-1986), Torino, Einaudi, 1986. * Prove del teatro, Torino, Einaudi, 1989. * Frau Doktor, Milano, Mondadori, 1989. * Fortezza, Torino, Milano, Mondadori, 1990. * Poesie (1953-1990), Milano, Garzanti, 1991 (2 voll.). * Quanto spera di campare Giovanni, Milano, Garzanti, 1993. * Un poeta del golfo, a cura di Carlo Di Alesio, Milano, Longanesi, 1995. * Empie stelle, Milano, Garzanti, 1996. * Eresia della Sera, Milano, Garzanti, 1999. * I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, Milano, Mondadori, 2000 (I Meridiani). * Dedicato ai pompieri di New York da 'Poesia’, 2001. * Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002, Casette d’Ete, Grafiche Fioroni, 2004. * Prove di vita in versi. Il primo Giudici da 'Istmi. Tracce di vita letteraria’, 2012. * Tutte le poesie, introduzione di Maurizio Cucchi, Milano, Mondadori, 2014. Saggi * La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975), Roma, Editori Riuniti, 1976. * La dama non cercata. Poetica e letteratura (1968-1984), Milano, Mondadori, 1985. * Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Roma, Edizioni e/o, 1992. * Per forza e per amore, Milano, Garzanti, 1996. Traduzioni * Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980), Torino, Einaudi, 1982. * A una casa non sua. Nuovi versi tradotti (1955-1995), Milano, Mondadori, 1997. * Eugenio Onieghin di Aleksandr S. Puskin in versi italiani, Milano, Garzanti, 1999. * Vaga lingua strana. Dai versi tradotti, Milano, Garzanti, 2003. Altri progetti * Wikiquote contiene citazioni di o su Giovanni Giudici * Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giovanni Giudici Collegamenti esterni * Giovanni Giudici, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. * Pagina dedicata a Giovanni Giudici da Scrittori in corso, su scrittorincorso.net. * Rodolfo Zucco, Itinerari di Spina, in Atti di INCONTROTESTO. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, Siena, ottobre-novembre 2011, Pisa, Pacini editore, 2011, pp. 77–83. Damiano Frasca, Vite ordinarie. Giudici e il crepuscolarismo, in Atti di INCONTROTESTO. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, Siena, ottobre-novembre 2011, Pisa, Pacini editore, 2011, pp. 85–91. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Giudici




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