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Canto quarto

1- Chi1 spegner può la Fada a Amor nemica,
Ai piacer suoi e al suo giojoso regno,
Fassi la madre sua Venere amica,
E modo trova ad ogni suo disegno;
Ma sol la pazïenzia e la fatica
Pôn far l’amante di tal grazia degno:
Queste son l’armi vere2 e scuto e spada,
Che estinguer ponno la nemica Fada.
 
2- Io vi lassai il franco Ferraguto
Con gran fatica e somma pazïenza
Innanzi al car’ di Citeréa venuto,
A cui prostrato fece riverenza.
Vener, dappoi che allor l’ebbe veduto
Con tanta umilitade a sua presenza,
Accarezzòllo assai, e come Dea
Previde quel che per lei fatto avea.
 
3- E vôlta a lui con soave guardatura:
—Felice nell’amor (disse) sarai;
Poi che la strada mia fatta hai sicura,
Lieta e propizia a te sempre mi arai:
Nelle trame d’amor lieta ventura
Sempre, baron, vivendo troverai;
Chè un ver servo d’Amor giammai non cade,
Con fatica, pazienzia e umilitade.—
 
4- E allor la Diva grazïosamente
Baciar gli fece il bello aurato pomo;
Quello ch’in man tenea, se ancor vi è a mente,
Che far puote in amor felice l’uomo.
Gran virtude da quello e grazia sente
Chi in servitù d’Amore al giogo è domo,
E bacia il pomo che già diede in mano
Elena bella a Paride trojano.
 
5- La turba che dintorno a Vener stava,
Ebbe di quel barone invidie estreme,
Vedendo quanto lui accarezzava
La lor regina, che molti altri preme:
Nè poco altri amatori antiqui aggrava
Ch’esca tal frutto di sì nôvo seme,
Che un sì novello amante a Vener gionto
Tenuto sia da lei in tanto conto.
 
6- Ella, ch’intende il cuore, essendo Dea,
Come uom che sopra li altri ogni altro vede,
Lor secreti penser tutti intendea,
Chè l’alto e divin lume il nostro eccede;
Con celeste parlar così dicea:
—Dàssi secondo il merto ogni mercede:
A voi ciechi non par, ma a me, che a lui
Mi dimostri benigna or più che altrui.
 
7- Taccio la causa; e a render non son stretta,
Io che son Dea, ragione a vui mortali.
Come esso al fine vuol, sue grazie assetta
Ciascun Iddio, e non come voi frali:
Anzi, flagello e gran tormento aspetta
Chi ai Dei ascrive le ingiustizie e i mali.
Costui me e voi ha preservato solo;
Nè gli può Amor spiacer, sendo spagnuolo.
 
8, Ebbe compiuto appena il parlamento
L’alta regina, che li ardenti cuori,
E ogni servo d’Amor restò contento,
Mostrandolo con rose ed altri fiori:
Mostravano al baron loro odio spento
Con canti, con fioretti e con odori:
Ciascun l’onora, reverisce e loda,
E par che del suo ben gioisca e goda.
 
9- Poi che fu da ciascun tanto onorato,
Da ogni schiera d’amanti in suo ben mossa,
Da Vener fu il baron licenzïato,
Che ad ogni suo piacer partir si possa;
E il partire al baron fu molto grato,
Desideroso di mostrar sua possa
Fra li erranti baroni, e a tempo e loco
Goder felice in amoroso giôco.
 
10- Accompagnato fu per via secreta
Dalla nudata ninfa a lui compagna;
E pose quella a accompagnarlo mêta,
Poi che condutto l’ebbe alla campagna;
Ch’ora è spaziosa e di verdura lieta,
Nè della Fada più si duole e lagna:
Più il palazzo non vi è, ma il fiume, il quale
Per fatagion non fu, ma naturale.
 
11- La ninfa allor da lui prese licenza,
Con riverente cura e bel sembiante:
Così il baron da lei fece partenza,
Sperando a tempo esser felice amante;
E come cavalier di gran coscienza,
Ringrazïò Macon di grazie tante;
E fece voto, d’ogni menda netto,
Andar dove sepulto è Macometto.
 
12- E prima che d’Amor mai cerchi frutto,
Nè di Venere assalti impresa alcuna,
Rivolse al suo Macon l’animo tutto,
Poi che difeso l’ha da tal fortuna;
Chè quando in l’acqua al fondo fu condutto,
Pensò non veder mai più sole o luna,
E stimòssi, cadendo, al tutto morto;
Or ne ringraziò Dio, poi che gli è sorto.
 
13- Così verso la Persia il cavaliero
Va armato a piedi, e non si mostra lasso;
Che, se vi è in mente, già quel suo destriero
Dentro al palagio si converse in sasso:
Di replicarlo più non fa mestiero,
Ma vada Ferraù, che quivi io il lasso:
Di andare adagio assai tempo gli avanza;
Sonan le trombe, e son chiamato in Franza.
 
14- Già son vicini l’uno e l’altro campo,
Come, signor, vi dissi in l’altro canto:
Di assalirse ciascun menava vampo,
E già incresce a ciascuno il tardar tanto:
E come il ciel della tempesta il lampo
Manda per segno, così Uggiero il guanto
Mandò in segno di guerra allo inimico;
Ma quel lo accetta, e non lo estima un fico.
 
15- La schier’ dell’avanguardia era innante;
Già per tutto di trombe il suon si odea:
Da un lato Uggier, da l’altro Balugante,
Al combatter con pregii4 ognun movea:
Or viene Artiro e Salomone aitante
L’un contra l’altro, come si solea
Ciombattere in quel tempo a schiera a schiera,
E sempre il capo il primo a ferir era.
 
16- Percosse Artiro il franco Salomone
Al scudo, e del destrier lo stese in groppa;
Ma alla visiera il cristian barone
L’inimico pagan con l’asta intoppa,
E la schiena5 piegar lo fe allo arcione,
Tal che fu di cader più volte in forse:6
Ma l’uno e l’altro immantinente sorse,
E a ferirse col brando a furia corse.
 
17- Tra costor cominciòssi allor gran zuffa,
E mescolòssi l’una e l’altra schiera:
Crebbe in instante la mortal baruffa,
Chè l’una e l’altra gente è ardita e fiera;
E questo quello, e quel questo ribuffa;
Alcun non è che non combatta e fêra:
Come prima d’un fuoco talora esce
Un vampo, e un tratto poi súbito cresce.
 
18- Artiro e Salomon fan mortal guerra,
E quello a questo il forte elmo martella:
Al primo colpo il gran cimier gli atterra,
E quasi il tolse a quel colpo di sella;
Ma un gagliardo non va sì presto a terra:
Ira e vergogna il paladin flagella,
E sopra all’elmo l’inimico tocca,
Che gli fece tremare i denti in bocca.
 
19- Ma tanto fu degli altri la gran calca
Che sopra a’ dui baron con furia abbonda,
Che l’un da l’altro presto si defalca
Come due navi sparte il vento e l’onda.
Oh quanta gente allora si scavalca!
Ogni cosa* 8 di sangue intorno gronda;
A chi è tagliato ed a chi suda il pelo,
E il gran rimbombo suona insino al cielo.
 
20- Va Salomon correndo fra’ Pagani,
Come lupo fra il gregge o in paglia fuoco:
Artiro atterra e uccide li Cristiani,
E chiunque accoglie, o môre o campa poco.
Una gran pezza stettero alle mani,
Chè l’uno a l’altro non concesse il loco;
Ma pel vigor di quei di Salomone,
Si rincularo8 alfin quei di Macone.
 
21- Sforzasi Artir difender la bandiera,
Vedendo di Cristiani il valor grande;
Ma in rotta fugge ormai tutta sua schiera;
Chi qua chi là per non morir si spande:
Minaccia Artir, biastema e si dispera,
Ma attender non puote egli a tante bande;
E Balugante, che tal cosa vide,
Di soverchia ira e di vergogna stride.
 
22- E subito comanda al franco Odrido,
Che la schiera seconda a guerra mova:
Mossesi quello, e credo alzasse* 10 il grido
Insino al cielo allor la gente nôva;
Ma Uggier, di Carlo capilanio fido,
Visto che l’ebbe, ai suoi gente rinnova;
Mossesi Astolfo e centra Odrido corse,
Ma alcun di loro ai colpi non si torse.
 
23- Trasse Pomella9 il valoroso Inglese,10
Poi che ebbe fracassata allor la lanza,
E sopra a un amirante la distese,
Che, allo inferno maodòllo a tôr la stanza;
Gridando:—State, gente, alle difese,
Ch’io sono il fior de’cavalier di Franza,
Che per parol’ non resta far de’ fatti:—
E già tre morti n’avea ’n terra tratti.
 
24- Partenio occise, Validoro e Iverso.
Al primo fêsse il capo insino al petto,
E il secondo tagliò tutto a traverso,
Sì come al terzo spiccò il capo netto:
L’un Medo, Arabe l’altro e l’altro Perso;
Vecchi i dui primi e il terzo giovinetto.
Nè resta Astolfo, ma ferisce forte,
E chi scavalca e chi conduce a morte.
 
              (Manca la continuazione.)
 
25- Maravigliòsse assai Orlando allora
Di tal nazion di gente e sua natura:
Ma qui di lui vi lasserò per ora,
Che anco di Carlo mi bisogna cura.
Stava l’imperator festivo ancora
Della vittoria avuta, e sol procura* 11
Adunar genti per la santa impresa,11
Nè fatica risparmia o guarda a spesa.
 
26- Fra li altri, un giorno fece un gran convito
Con onorevol pompa alla regale;
E di tutti i signor fu fatto invito,
Senza altra differenzia, universale;
Ove fu ognun trattato e riverito
Secondo il grado suo maggiore o eguale,
E tanto da re Carlo accarezzato,
Che ognun se ne partì ben contentato.
 
27- Dopo il convito, il sacro imperatore
Mostrò cesárea liberalitade,
E in varî modi dimostrò l’amore
Che ai suoi portava; a chi con dignitade,
A chi con roba, a chi con altro onore:
A chi dona castella, a chi cittade;
E a varii mostra variamente il cuore,
Con tal misura e tal provvedimento,
Che ognun di lui quel dì restò contento.
 
28- Mentre era questo, nella regia sala
Si vide un messaggiero in fretta entrare,
Quale era appena al sommo della scala,
Che Carlo il vide e a lui il fece andare:
Súbito quel li espose, come cala
Gualtier dal monte, e affretta il camminare,
Perchè inteso ha che Carlo è in gran periglio,
E di affrettarsi ha preso per consiglio.
 
29—Con lui è Desiderio di Pavia,
Che al Sepulcro seguirti si dispone,
Con altri gran signori in compagnia;
E seco viene ancor papa Leone,
Con cardinali e magna chierichia,
Per annullar la legge di Macone:
Tutti, signore, vengono a ajutarti,
E mi han mandato avanti ad avvisarti.—
 
30- Così disse il messaggio, e da poi tacque,
Per non passare del suo uffizio il segno.
A Carlo molto la novella piacque,
Per sua onoranza e sicurtà del regno:
Bench’i Pagani ormai sian messi all’acque,
Pur temea ancor non li movesse a sdegno
A rifar testa e ritornare a drieto;
E con più gente, sta col cuor più quieto.
 
31- Iddio ringrazia, e per molto cattolico
Loda Leone allor sommo pontifice,
Che a lui conduca favore apostolico,
Chè così spera fare opre mirifice;
E il culto di Macon, qual è diabolico,
Male ordinato e di peggiore artifice,
Estinguere ivi almen dove si vede
Sepulto il Fondator di nostra fede.
 
32 E súbito rivolto ai baron tutti,
Comanda lor che in punto ognun si metta,
E l’altro giorno a corte sian ridutti
Per andar contra16 il pastor santo in fretta.
Non pur li gran signor, ma donne e putti,
Ciascun di andarli si provvede e affretta;
E par che Iddio dal cielo e i benedetti
Angeli insieme ognuno in terra aspetti.
 
33- E così far si deve, e potea farse
In quella età che avea fedel pastori;
Ma se or son l’alme di conscienzia scarse,
Causa ne sono i papi e loro errori,
Che a’ nostri tempi attendono a ingrassarse
Tra le spurcizie e i vani adulatori,
Con spesse simoníe, con tali imprese
Che a vender son forzati insin le chiese.
 
34- Così in punto si mosse19 il gran re Carlo,
E contra al papa andò con la sua corte,
Per farli reverenzia e accarezzarlo,
Come a pastor convien di simil sorte.
Andò lontan sei miglia ad aspettarlo,
E farli compagnia dentro alle porte
Di Parigi, che aspetta a grande onore
Veder de’ Cristïan l’alto pastore.
 
35- Andònli incontra fuori di Parigi,
Col vescovo Turpino, e preti e frati,
Con le lor croci, neri, bianchi e bigi,
Con ricche20 veste ben tutti addobbati;
E d’ogni sorte ch’ai divin servigi
S’usano paramenti ricamati;
Belle pianete21 e adomi pivïali,
Con reliquie, con calici e messali.
 
36- Intanto ecco trombette e tamburini
Mandare insino al cielo orribil suono:
Carlo l’udiva e tutti i paladini,
E quanti giunti dove è Carlo sono;
E udendo par che ognor più s’avvicini
Dove era Carlo il spaventevol tuono;
Quando a lui giunse22 un altro messaggiero,
Qual disse che vicino era Gualtiero;
 
37- Qual conduceva genti italïane
In ajuto di Carlo e del suo regno;
Genti fedeli, e tutte cristïane,
Che hanno Macone e chi l’adora a sdegno;
E che dipoi seguivan le romane
Genti, dove era Leon papa degno.
Possibil non fu allora che restasse
Carlo, sì allegro fu, che non gridasse.
 
38- Con gravità però Carlo gridava:
—Viva la buona gente italïana;—
—Italia,—dopo lui, ciascun chiamava;
—Viva l’Italia e la gente romana—
L’Italïani ogni baron lodava,
Che ora è stimata gente ignava e strana;
Barbari soli son che or prove fanno,
Nè Italïani ormai più credito hanno.
 
39- Già tutto il mondo dominâr Romani;
E chi fusse Lucullo e il gran Pompeo,
Li Asïatici il sanno e li Affricani,
Mitridate, Tigrane e Ptolomeo.
Cesare in Franza ed altri popul strani,
E in tutta Europa gran prodezze feo;
E Sertorio e Camillo ed altri molti,
Che qui per brevità non ho raccolti.
 
40- Or persa è tutta la memoria antiqua,
Nè quasi è più chi lor vittorie creda:
Colpa di sorte di signori iniqua
Che a’ barbari l’Italia han data in preda,
Per lor discordie, e per seguir l’obliqua
Strada, in voler che l’uno a l’altro ceda.
Usurpar quel d’altrui senza ragione,
Di rovinar l’Italia oggi è cagione.
 
41- Lodò l’Italia assai Carlo, che stato
Vi era più volte a difensar la Chiesa,
E l’italo valore avea provato,
Ch’era di gran contrasto e gran difesa;
E se ben Desiderio26 avea domato
Con altri assai, fu per lor dura impresa.
Contra la Chiesa, e per commesso errore,
Spesso ai gagliardi Iddio tolle il valore.
 
42- Or se ne vien Gualtier da Monlione,
Qual fu gagliardo e nobil paladino,
Sollecito e al suo re fedel barone,
E molto il loda nel suo dir Turpino.
Visto re Carlo, dismontòe d’arcione
Per onorar il figlio di Pipino:
Carlo abbracciòllo e gran feste gli fece,
Come fare alli suoi a un signor dece.
 
43- E così fece a tutti li signori
Ch’erano con Gualtier, con lieto viso.
Io non potrei narrare i grandi onori
Ch’a lor fûr fatti, e le gran feste e il riso.
Intanto, ecco il pastor delli pastori,
Ch’apre a suo modo e serra il paradiso:
Carlo, che con le chiavi il gran stendardo
Vide, a smontare a piedi non fu tardo;
 
44- E al pontifice andando, inginocchiòsse,
Ed umile baciògli28 il sacro piede.
Il papa ad abbracciarlo allor si mosse,
E la benedizion dappoi gli diede;
E, sorgendolo il papa, alfin levòsse,
E a ciò che li comanda assente e cede;
E per entrar con quel dentro a Parigi,
Sopra il destrer montò senza litigi.
 
45- Così verso Parigi ognun s’invia;
E il primo fu Gualtier da Monlione,
Che avéa re Desiderio in compagnia
E tutta la lombarda nazïone;
Poi delle guardie l’ordine seguia:
Dalla man destra è quella di Leone,
Dalla sinistra sta quella di Carlo,
Ch’il suo segue ciascuna e vuol guardarlo.
 
46- Da un canto stan le guardie, e non intorno,
E fan come due corna in quel confino.
Da destra stava, di belle armi adorno,
Al papa un stormo di Roman vicino:
Poi si vedeva dal sinistro corno,
A lato a Carlo, ogni suo paladino
Allora alla sua guardia deputato,
Ciascuno adorno e di belle armi armato.
 
47- Poi seguiva Leon con viso lieto,
Armato in sella in abito viandante;
E Carlo appar con lui, ma pur più indrieto
Tanto, ch’il papa si può dir più avante:
Così fu allor quello ordine discreto
Con misterio e ragion molto importante;
Chè minore è del papa, ma maggiore
D’ogni altro al mondo è poi l’imperatore.
 
48- Armato stava in abito pomposo
Re Carlo allora riccamente adorno,
E sembrò in vista degno e glorïoso
Re de’ Romani e imperator quel giorno;
Parlando insieme, e ognun di lor giojoso,
Del danno de’ Pagani e di lor scorno,
Della vittoria da re Carlo avuta;
Chè sempre Cristo chi in lui spera ajuta.
 
49- Dopo seguíano insieme i cardinali,
Adorni d’armi per la Fè di Cristo;
Non, come a questa età, per strazi e mali
D’innocenti signori e ingordo acquisto;
Per scacciar di lor terre i naturali
Signori, a fin d’uno appetito tristo:
Seguían il papa; e dopo, un capitano,
Quale era vicesenator romano.
 
50- Era di Orlando quel locotenente,
Che era in quel tempo roman senatore;
E lassava in sua vece, essendo assente,
Un patrizio roman di gran valore,
Il qual guidava tutta la sua gente:
Giovene ardito e di animoso cuore,
Di quella proprio illustre nazïone,
Che era il suo nome eccelso Scipïone.
 
51- Vinti milia e seicento avea costui
Sotto il stendardo della santa Chiesa,
Che tutti andavan volontier con lui
Per scudo della Fede e sua difesa;
E non per usurpar stato d’altrui,
Ma contra l’infedeli è loro impresa.
Di tutta l’altra gente deretani,
Sì come un retroguardo, eran Romani.
 
52- Così van tutti, e sol Leone e Carlo
Fra lor si grida, si desidra e noma.
Questo l’ordine fu, nè da me parlo.
Ma in scriverlo Turpin prese la soma:
La colpa è sua, se ben non seppe farlo.
Non saprei dir se a questi tempi in Roma
Li esperti mastri delle cerimonie
Tali ordinanze stimaríano idonie.
 
53- Gionsero in fine alle sbadate porte
Di Parigi, città magna e regale,
Ove è, con preti e frati d’ogni sorte,
In abito Turpino episcopale;
Tutti cantando salmi ed inni forte
Tanto, che sino al ciel la voce sale:
Innanzi a tutti si vedean cantare,
Come in processïon si suole andare.
 
54- Dentro a Parigi si sentían campane
Con segno di allegrezza al ciel sonare;
Tante trombe e tambur’ che lingue umane
Non bastarian, volendolo esplicare;
Arpe, liuti ed altre cose strane
Si udivano con grazia armonizzare;
Musiche con canzoni, e bei mottetti
Con arie belle, e contrappunti eletti.
 
55- Grande allegrezza fan fanciulle e donne,
E al beato pastor debiti onori:
Adorne eran le dame in belle gonne
Con diversi ornamenti e bei colori;
E quante lo vedean, serve e madonne,
Spargevano in suo onor diversi fiori,
Con odorifere erbe e naturali,
Sopra il capo a Leone e i cardinali.
 
56- Entrati in la città, súbito andaro
Alla prima lor chiesa cattedrale;
E Dio, come si suol, prima onoraro
Carlo, il pastore ed ogni cardinale:
Nè si volse mostrar di grazia avaro,
Se ben veste non ha pontificale,
A quel populo allor papa Leone,
Chè a tutti diede la benedizione.
 
57- Doranio, fatto poco anzi cristiano,
Di tal cospetto non si può saziare;
Nè vorrebbe esser, come già, pagano
Per quanto tien la terra e cinge il mare:
Il viver de’ Cristian gli pare umano,
Natural, giusto, come dêssi usare,
Con cerimonie che hanno in sè ragione;
Qual non si trova in quelle di Macone.
 
58- Poi che fu reso a Dio debito onore,
L’entrata fêro nel real palagio
Carlo e Leone, e ogni altro gran signore
Fu consegnato ove può stare ad agio.
Alloggiò parte drento e parte fuore,
E non fu chi patisse alcun disagio.
Ma posino a lor modo, chè piacere
Hanno essi di posare, io di tacere.
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