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Implorazione.
ESTATE, Estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.
 
Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore.
 
Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin Settembre, che non sia sì lesto.
 
Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.
 
 
La sabbia del tempo.
Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
 
E un’ansia repentina il cor m’assalse
per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
 
Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente d’ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.
 
 
L’orma.
Sol calando, lungh’essa la marina
giunsi alla pigra foce del Motrone
e mi scalzai per trapassare a guado.
 
Da stuol migrante un suono di chiarina
venìa per l’aria, e il mar tenea bordone.
Nitrì di fra lo sparto un caval brado.
 
Ristetti. Strana era nel limo un’orma.
Però dall’alpe già scendeva l’ombra.
 
 
All’alba.
All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.
 
Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo rattratto
come ugnello di gàzzera marina.
 
 
La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.
 
Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.
 
Livido si fuggì pel folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.
 
Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.
 
 
A mezzodì.
A mezzodì scopersi tra le canne
del Motrone argiglioso l’aspra ninfa
nericiglia, sorella di Siringa.
 
L’ebbi su’ miei ginocchi di silvano;
e nella sua saliva amarulenta
assaporai l’orìgano e la menta.
 
Per entro al rombo della nostra ardenza
udimmo crepitar sopra le canne
pioggia d’agosto calda come sangue.
 
Fremere udimmo nelle arsicce crete
le mille bocche della nostra sete.
 
 
 
In sul vespero.
In sul vespero, scendo alla radura.
Prendo col laccio la puledra brada
che ancor tra i denti ha schiuma di pastura.
 
Tanaglio il dorso nudo, alle difese;
e per le ascelle affero la naiàda,
la sollevo, la pianto sul garrese.
 
Schizzan di sotto all’ugne nel galoppo
gli aghi i rami le pigne le cortecce.
Di là dai fossi, ecco il triforme groppo
su per le vampe delle fulve secce!
 
 
L’incanto circeo.
Tra i due porti, tra l’uno e l’altro faro,
bonaccia senza vele e senza nubi
dolce venata come le tue tempie.
 
Assai lungi, di là dall’Argentaro,
assai lungi le rupi e le paludi
di Circe, dell’iddìa dalle molt’erbe.
 
E c’incantò con una stilla d’erbe
tutto il Tirreno, come un suo lebete!
 
 
 
Il vento scrive.
Su la docile sabbia il vento scrive
con le penne dell’ala; e in sua favella
parlano i segni per le bianche rive.
 
Ma, quando il sol declina, d’ogni nota
ombra lene si crea, d’ogni ondicella,
quasi di ciglia su soave gota.
 
E par che nell’immenso arido viso
della piaggia s’immilli il tuo sorriso.
 
 
Le lampade marine.
Lucono le meduse come stanche
lampade sul cammin della Sirena
sparso d’ulve e di pallide radici.
 
Bonaccia spira su le rive bianche
ove il nascente plenilunio appena
segna l’ombra alle amare tamerici.
 
Sugger di labbra fievole fa l’acqua
ch’empie l’orma del piè tuo delicata.
Altre opere di Gabriele D'Annunzio...



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