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Giuseppe Giusti (Monsummano Terme, 13 maggio 1809 – Firenze, 31 marzo 1850) fu un poeta italiano del XIX secolo, vissuto nel periodo risorgimentale. Appartenente ad una ricca famiglia di proprietari terrieri, era figlio di Domenico Giusti e di Ester Chiti. Biografia L’infanzia Dai sette ai dodici anni fu affidato, per essere istruito, alle cure di Don Antonio Sacchi, ma non ne ricavò nulla di buono: «Avevo sett’anni [...] stetti cinque anni con lui, e ne riportai parecchie nerbate e una perfetta conoscenza dell’ortografia, nessuna ombra del latino [...] pochi barlumi di storia non insegnata; e poi svogliatezza, stizza, noia, persuasione interna di non essere buono a nulla». Nel 1821 frequentò il collegio Zuccagni Orlandini di Firenze, uno dei migliori del Granducato, dove rimase circa dieci mesi; incontrò Andrea Francioni, il suo padre-maestro. Un momento fondamentale per la sua formazione intellettuale. «Nella sua scuola non si sentivano urli né strepiti, non carnificine, né invidie [...]. Lo studio era diventato un divertimento; perfino quello della lingua latina [...]. Dieci mesi stetti con lui, ma mi bastarono per sempre». Finito l’anno scolastico, l’istituto chiuse e Giuseppe dovette trasferirsi, nel novembre del 1822, nel Seminario e Collegio Vescovile di Pistoia; inserito nella classe di "umanità", corrispondente al nostro attuale liceo, dopo un breve periodo, nove mesi, ne uscì con un attestato abbastanza lusinghiero, che però non ci dice nulla sulla sua formazione culturale. Il padre del poeta, Domenico, non soddisfatto dell’esperienza pistoiese, riuscì ad inserirlo, nell’estate del 1823, nel prestigioso Real Collegio Carlo Lodovico di Lucca. L’istruzione ricevuta nel Collegio Vescovile di Pistoia era stata talmente carente, che il giovane, «docile, ubbidiente e studioso», dovette riprendere gli studi da un gradino più basso, dalla classe di grammatica. L’esperienza lucchese fu certo importante per il giovane, che ebbe modo di conoscere una nuova realtà, diversa da quella toscana, visto che Lucca a quell’epoca era la capitale di un piccolo ducato. Nei due anni circa, 1823-1825, in cui il Giusti rimase a Lucca, si esercitò, senza riserve, nella versificazione, inviando al padre sonetti dal gusto epico-lirico, frutto più degli studi accademici della scuola che della sua vera natura creativa. A sedici anni, siamo nel 1825, scrisse al padre, polemizzando con il gusto letterario del momento e, con un impeto radicale irriverente, si scagliò contro il romanticismo foscoliano. «È inoltre sorto in oggi, un certo entusiasmo per certe cose che fanno vomitare. Vi è [...] un picciolo opuscoletto, ossia raccolta di lettere di un certo Jacopo Ortis, le quai se tu leggi sentiraivi che tratto tratto, vi sono delle cose che, al dire dei moderni, incantano, le quai sarebbero, mi sparpaglierei il cervello quando penso ecc.; [...] Miseri farnetici! Io vi compatisco; leggete, leggete Botta piuttosto che quella veramente corbelleria di Ortis, leggete Botta, e troverete [...] non sparpagliamenti di cervello [...], ma descrizioni di battaglie, e sparpagliamenti di eserciti, anzi di stati, anzi di nazioni, ed anzi quasi metà del mondo. Che importa a noi se un corbello, un pazzo, vuole per amore sparpagliarsi il cervello [...]». Il ribelle, il contestatore, apprese pochissimo, anche in questo collegio: sufficiente in italiano, ma debole in latino. Tornato in famiglia, a Montecatini, si mise a studiare per prepararsi all’esame d’ammissione all’Università di Pisa, dove s’iscrisse, «di contraggenio» alla Facoltà di Diritto, nel novembre del 1826. Il periodo universitario del Giusti Per tre anni, Giuseppe Giusti, lontano dalla famiglia, frequentò a Pisa salotti, bettole, biliardi, teatri, casini e, soprattutto il famoso caffè dell’Ussero, dove improvvisava, a braccio, “scherzi”, “rabeschi”, tra gli applausi e i consensi della gente. Oppresso dai debiti e infiacchito dalla vita bohémienne, sostenne solo l’esame di filosofia. Richiamato dal padre, a Pescia, dove si era trasferita la famiglia, si annichilì nell’ozio e nella noia, solo l’amore riuscì a rischiarare l’orizzonte grigio della vita di paese. Allacciò una relazione amorosa, protrattasi fino al 1836, con la signora Cecilia Piacentini di Pescia: fu un amore travolgente e corrisposto, non solo fatto di poesie e sospiri. «I miei passi andavano piuttosto verso i giardini di Valchiusa, che verso gli orti del Berni». Nella prima metà di novembre del 1832 il Giusti tornò a Pisa per riprendere gli studi interrotti da tre anni. Aveva fatto con il padre un patto solenne: avrebbe studiato sul serio e nei tempi dovuti, ma le cose non andarono proprio così. Una sera, di febbraio, nel 1833, al Teatro dei Ravvivati (ora Teatro Rossi) di Pisa, molto frequentato dagli studenti universitari, in onore della cantante Rosa Bottrigari, famosa per le sue idee liberali, si distribuirono delle poesie, che dettero nell’occhio agli agenti di polizia. Rosa Bottrigari era giunta a Pisa da Bologna; e quella sera si presentò in scena, a fianco del famoso tenore Poggi, con una ghirlanda di fiori tricolore. Fu un tripudio, un delirio di urla, inneggianti all’Italia libera. Il rumore di quella serata giunse a Firenze: Giusti, con altri compagni, venne invitato dalla polizia a fornire spiegazioni in proposito. Seppe rispondere efficacemente all’auditore Lami, negando di trovarsi al teatro, nella sera incriminata. «Come non eravate al teatro, – gli rispose il commissario – se trovo il vostro nome nella lista degli accusati?». «Può essere – replicò – che i birri e le spie mi abbiano tanto nell’animo, da vedermi anche dove non sono. Quella sera l’ho passata in casa Mastiani». Dire la verità non lo salvò dal divieto di presentarsi all’esame di laurea, che sostenne invece, più tardi, nel 1834, nella sessione giugno/settembre. Il soggiorno pisano e non solo questo incidente;– basti pensare agli echi della rivoluzione parigina del luglio del 1830, i fatti di Modena del 1831 –, furono determinanti per la formazione della sua personalità e della sua poetica. Ne sono prova le sue poesie La ghigliottina a vapore (1833), in cui vengono scagliate le prime invettive contro Francesco IV di Modena, e Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833). In ambedue, ma specialmente nella seconda, Giusti affila la sua arma più efficace: l’ironia. L’ambiente fiorentino Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza si stabilì a Firenze. La città non gli fu, dapprima, un soggiorno gradito: il clima non gli si confaceva e pare non gli si confacesse molto neanche il carattere dei fiorentini, che accusava, fra l’altro, di farsi pagare troppo la «gentilezza attica». Firenze, comunque, non mancava di svaghi; c’era sempre un gran via vai di stranieri, francesi e inglesi: numerosi i ritrovi eleganti, i ricevimenti, i balli. «Ogni sera grandi scialacqui e grandi spese: rosbif divorati, bottiglie di Sciampagna asciugate». Firenze era in realtà il soggiorno ideale per lui, il miglior osservatorio ch’egli potesse desiderare ai fini della sua arte, della sua satira; era l’ambiente più rispondente al suo gusto di vivere, immerso nel mondo letterario, politico e galante. La città era uno dei centri più cosmopoliti d’Italia, più della stessa Roma; vi giungevano gli intellettuali e gli artisti più affermati d’Europa. Non c’era libertà di stampa, ma c’era libertà di lettura e di «chiacchiera». Non si poteva stampar nulla senza subire i rigori di una censura cinica e intransigente, ma chi andava a stampare fuori dei confini, aveva poche noie da temere, mentre le opere clandestine più eversive entravano nel Granducato di contrabbando e vi si diffondevano, a dispetto della polizia. A Firenze, la diffusione dei versi di Giusti era ristretta alla cerchia degli amici, ai quali il poeta recitava direttamente i suoi lavori (accettando suggerimenti e correzioni). Di ritorno da un soggiorno a Siena, in casa di amici, Giusti era giunto, all’alba a Firenze, molto affaticato. Entrato in casa, si era gettato sul letto e si era addormentato profondamente. Dopo poco, svegliatosi all’improvviso, vide la camera piena di fumo e sentì un gran puzzo di carta bruciata. «Arrivai ad estinguere il fuoco senza chiamare aiuto. [...] Molti libri miei e d’altri sono perduti irreparabilmente; appunti, abbozzi, studi di vario genere, e segnatamente note prese di proverbi e d’altre cose attenenti alla lingua sono andate in fumo. [...] Questi miseri rimasugli sono là tuttavia in un canto, e non ho cuore per ora di metterci le mani; pure bisognerebbe che me li togliessi dagli occhi, perché non posso ripensarci senza fremere dal fondo delle viscere». Nello stesso anno, a Monsummano, assistette con amore l’amatissimo zio Giovacchino fino alla morte, che sopraggiunge nel maggio del 1843. Non erano passati pochi mesi, che un nuovo colpo aggravò la salute del poeta. Una domenica di luglio, in via dei Banchi, a Firenze, mentre passava davanti al Palazzo Garzoni, lo assalì un gatto infuriato. «Mi graffiò e mi morse senza intaccarmi la pelle, bensì mi lasciò nella gamba sinistra l’impronta dei denti [...]. A dirtela, ebbi una paura del diavolo, non lì nel momento, ma dopo; e per l’impressione ricevuta e per quello che poteva accadere, perché m’accertai che era idrofobo». L’idrofobia gli aveva fatto sempre, fin da ragazzo, un terrore indicibile. Alla fine di gennaio del 1844 egli poté finalmente partire con la madre per Roma e Napoli. Si trattenne a Roma pochi giorni, data la pessima stagione; il 9 era già a Napoli e prese alloggio in Via Toledo. Fu accolto con tanta cortesia, la fama delle sue poesie lo aveva preceduto, «che dopo pochi giorni gli pareva d’esser nato là». Il Giusti si trattenne a Napoli oltre un mese: il tempo «diabolico» gli impedì di godersi in pieno la vista del Vesuvio, tutto avvolto da una nebbia così folta che, per quanto il vulcano fosse in eruzione, non gli permise di vedere «neppure un razzo di fuoco». Il poeta, a Napoli, strinse molte amicizie, prima fra tutte con Gabriele Pepe, che nel 1826 aveva avuto a Firenze il famoso duello con il Lamartine; con Carlo Poerio, poco dopo arrestato, quale complice dei fratelli Bandiera, e con il fratello di lui, Alessandro Poerio. Intanto, il male sconosciuto, che da più di un anno gli stava addosso, lo aveva agitato in un alternarsi di brevi riprese e di lunghe ricadute; quando credeva di essere lì per trovare un po’ di salute, era a un tratto ricacciato nelle sofferenze e nell’angustie morali. Aveva dovuto mettere da parte gli studi e pensare, più concretamente, alla propria salute. Ma un altro nemico, a suo dire, gli turbava, non poco, il sonno. I suoi scherzi, i suoi «ghiribizzi», appunto perché in gran parte affidati alla diffusione orale, o a quella di manoscritti ricopiati molte volte, e non sempre con diligenza, subivano spesso modificazioni e tagli, o si allungavano in appendici. La vicenda letteraria «L’ultima batosta – scriveva al Vannucci, il 14 settembre 1844 – avuta a Livorno fu così inaspettata e così fiera, che io credeva di dover finire inchiodato in un fondo di letto». A sua insaputa, nel 1844 a Lugano, venivano pubblicate alcune sue poesie, ad opera di un anonimo editore, forse ben intenzionato, ma non troppo scrupoloso (Poesie italiane tratte da una stampa a penna, Italia, 1844). L’edizione, curata da Cesare Correnti che ne dettò la prefazione, fu pubblicata a spese del Ciani, presso la Tipografia della Svizzera Italiana a Lugano; ma, dapprima, fu attribuita, erroneamente, alle cure di Giuseppe Mazzini. Giusti se ne risentì vivacemente e infatti, subito dopo, dava alle stampe i Versi nell’edizione di Livorno (Versi di Giuseppe Giusti, Livorno, Tipografia Bertani e Antonelli, 1844), nella cui dedica alla marchesa Luisa D’Azeglio manifestava il suo sdegno contro lo «stampatore sfrontato e disonesto». Del libretto mandò molte copie agli amici, dolente di non aver potuto produrre qualcosa di più ampio. Per consolidare la sua fama di poeta, nell’anno seguente, 1845, il Giusti fece pubblicare dalla tipografia Fabiani, di Bastia, trentadue dei suoi «scherzi». Questa raccolta non portava il nome dell’autore, ma ormai tutti erano a conoscenza della paternità di quei versi (Versi, Bastia, Tipografia Fabiani, 1845). Nell’agosto del 1845, convinto dall’amico Giovanbattista Giorgini, il poeta di Monsummano si decise a partire, in compagnia della marchesa D’Azeglio e di Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni, per Milano, «...senza un cencio di passaporto, senza un soldo in tasca». Grande curiosità e interesse suscitò l’arrivo a Milano del Giusti. I versi pubblicati a Bastia correvano per tutte le mani, rispondendo alle attese dei sentimenti di libertà e d’indipendenza che pervadevano il paese da sud a nord. Il Manzoni accolse il «toscano Aristofane» come un suo pari e lo volle ospite per tutto il tempo del suo soggiorno in Lombardia (circa un mese): «Che pace – scriveva il poeta – che amore, che buona intelligenza tra loro! In Alessandro non so se sia maggiore la bravura o la bontà; l’unico che mi rammenti d’aver conosciuto sul taglio di lui, è il Sismondi». A Milano il poeta conobbe gli scrittori e gli intellettuali della cerchia manzoniana: Tommaso Grossi, Giovanni Torti, il Rosmini, gli Arconati, i Litta-Modigliani, Luigi Rossari. Il Manzoni aveva apprezzato il Giusti prima ancora di conoscerlo personalmente. Rispondendo ad una lettera del Giusti (in data 8 novembre 1843), che gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie, così si esprimeva il Manzoni: «Son chicche che non possono esser fatte che in Toscana, che da Lei; giacché, se ci fosse pure quello capace di far così bene imitando, non gli verrebbe in mente d’imitare». Era la prima consacrazione letteraria avuta dal poeta da un grande scrittore. Dopo le produzioni poetiche del 1844 e del 1845, pubblicò una terza edizione nel 1847 (Nuovi versi di Giuseppe Giusti, Firenze, Tipografia di T. Baracchi, 1847) che ebbe un successo strepitoso di pubblico e di mercato. Scriveva in quei giorni il Giusti alla marchesa Luisa D’Azeglio: «Le cose nuove mi consolano molto. Sapete che anch’io coi miei piccoli ferri ho cercato di tener vivo il fuoco quando pareva semispento [...]. Il paese da morto che era si è riscosso generalmente». L’impegno politico Gli ultimi anni della vita di Geppino (1848-1850), come affettuosamente lo chiamava Alessandro Manzoni, furono contrassegnati dalla grande illusione di un’Italia finalmente libera e dalla disillusione, dovuta al mancato accordo tra i sovrani italiani, nella conduzione della guerra d’indipendenza: prevalsero le ragioni di stato e i conflitti tra liberali e democratici. Ci fu, da parte del poeta, un timido affacciarsi alla finestra della politica: nel 1847 viene eletto, a furore di popolo, maggiore della guardia civica di Pescia, e nel 1848 deputato all’Assemblea legislativa toscana. Si chiuse definitivamente questo incidente di percorso, in quanto la politica, nel suo aspetto più pragmatico della parola, era estranea alla visione del mondo del Giusti. Unica nota lieta, in questo periodo, la nomina (nel 1848) del Giusti ad accademico della Crusca. Benché amico di molti accademici, il Giusti non era mai stato tenero con le accademie, contrario a tutto ciò che potesse «...limitare in qualche modo, anco indiretto, il libero esercizio delle sue facoltà intellettuali». Morì appena quarantenne, il 31 marzo 1850 nel palazzo dell’amico carissimo Gino Capponi, in via San Sebastiano, soffocato dal sangue per la rottura di un tubercolo polmonare. Le opere Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido verso e da un umorismo pungente e venate talvolta da una sottile malinconia, hanno come cornice la piccola provincia toscana. Furono pubblicate dapprima in forma sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. La poesia più nota è Sant’Ambrogio (nella quale il poeta dichiara apertamente le proprie posizioni anti-austriache, rivolgendosi direttamente a una “Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco” con evidente riferimento all’autorità imperiale, ed affermando vicinanza umana e politica ad Alessandro Manzoni, padre del citato “compagno figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi”). Altre composizioni molto note sono: Il re Travicello, Il brindisi di Girella, satira della “morale” dei voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero, acre satira anticlericale, La chiocciola. Tra le opere in prosa sono da ricordare le Memorie inedite, che furono pubblicate solo nel 1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana, e una raccolta di Proverbi toscani, pubblicati anch’essi postumi (1853). Assai interessante il ricco Epistolario, dal quale emerge la sua viva parlata toscana e l’adesione alle tesi manzoniane sulla lingua. Archivio personale * L’archivio della famiglia è depositato presso l’Archivio di Stato di Pistoia. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Giusti
Alda Giuseppina Angela Merini (Milano, 21 marzo 1931 – Milano, 1º novembre 2009) è stata una poetessa, aforista e scrittrice italiana. «Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita.»
Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta, accademico e critico letterario italiano, figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento. Nonostante la sua formazione eminentemente positivistica, è insieme a Gabriele D’Annunzio il maggior poeta decadente italiano. Dal Fanciullino, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano, e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D’altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del “fanciullino” presente in ognuno: quest’idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di “poeta vate”, e di ribadire allo stesso tempo l’utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia. Egli, pur non partecipando attivamente ad alcun movimento letterario dell’epoca, né mostrando particolare propensione verso la poesia europea contemporanea (al contrario di D’Annunzio), manifesta nella propria produzione tendenze prevalentemente spiritualistiche e idealistiche, tipiche della cultura di fine secolo segnata dal progressivo esaurirsi del positivismo. Complessivamente la sua opera appare percorsa da una tensione costante tra la vecchia tradizione classicista ereditata dal maestro Giosuè Carducci, e le nuove tematiche decadenti. Risulta infatti difficile comprendere il vero significato delle sue opere più importanti, se si ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e psicologici che egli stesso riorganizzò per tutta la vita, in modo ossessivo, come sistema semantico di base del proprio mondo poetico e artistico. Biografia Anni giovanili Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre, giorno di San Silvestro del 1855 a San Mauro (oggi San Mauro Pascoli in suo onore) in provincia di Forlì all’interno di una famiglia benestante, quarto dei dieci figli – due dei quali morti molto piccoli – di Ruggero Pascoli, amministratore della tenuta La Torre della famiglia dei principi Torlonia, e di Caterina Vincenzi Alloccatelli. I suoi familiari lo chiamavano affettuosamente "Zvanì". Il 10 agosto 1867, quando Giovanni aveva undici anni, il padre fu assassinato con una fucilata mentre, sul proprio calesse, tornava a casa da Cesena.Le ragioni del delitto, forse di natura politica o forse dovute a contrasti di lavoro, non furono mai chiarite e i responsabili rimasero ignoti; nonostante tre processi celebrati e nonostante la famiglia avesse forti sospetti sull’identità dell’assassino, come traspare evidentemente nella poesia La cavalla storna: il probabile mandante fu infatti un delinquente, Pietro Cacciaguerra (al quale Pascoli fa riferimento, senza nominarlo, nella lirica Tra San Mauro e Savignano), possidente ed esperto fattore da bestiame, che divenne successivamente agente per conto del principe, coadiuvando l’amministratore Achille Petri, subentrato a Ruggero Pascoli dopo il delitto. I due sicari, i cui nomi correvano di bocca in bocca in paese, furono Luigi Pagliarani detto Bigéca (fervente repubblicano), e Michele Dellarocca, probabilmente fomentati dal presunto mandante. Sempre da Pascoli venne scritta una poesia in ricordo della notte dell’assassinio del padre, X agosto, la notte di San Lorenzo, la stessa notte in cui morì il padre. Sull’intricatissima vicenda del delitto Pascoli è stato pubblicato il volume di Rosita Boschetti Omicidio Pascoli. Il complotto frutto di ricerche negli archivi locali e che, oltre a pubblicare documentazione inedita, formula l’ipotesi di un complotto perpetrato ai danni dell’amministratore Pascoli. Il trauma lasciò segni profondi nel poeta. La famiglia cominciò a perdere gradualmente il proprio stato economico e successivamente a subire una serie impressionante di lutti, disgregandosi: costretti a lasciare la tenuta, l’anno successivo morirono la sorella Margherita di tifo, e la madre per un attacco cardiaco (di “crepacuore”, si disse), nel 1871 il fratello Luigi, colpito da meningite, e nel 1876 il fratello maggiore Giacomo, di tifo. Da recenti studi anche il fratello maggiore, che aveva tentato inutilmente di ricostituire il nucleo familiare a Rimini, potrebbe essere stato assassinato, forse avvelenato. Giacomo infatti nell’anno in cui morì ricopriva la carica di assessore comunale e pare conoscesse personalmente coloro che avevano partecipato al complotto per uccidere il padre, oltre al fatto che i giovani fratelli Pascoli (in particolare Raffaele e Giovanni) si erano avvicinati a tal punto alla verità sul delitto da essere minacciati di morte.Le due sorelle Ida (1863-1957) e Maria (1865-1953) andarono a studiare nel collegio del convento delle monache agostiniane, a Sogliano al Rubicone, dove viveva Rita Vincenzi, sorella della madre Caterina e dove rimasero dieci anni: nel 1882, uscite di convento, Ida e Maria chiesero aiuto al fratello Giovanni, che dopo la laurea insegnava al liceo Duni di Matera, chiedendogli di vivere con lui, facendo leva sul senso di dovere e di colpa di Giovanni, il quale durante i 9 anni universitari non si era più occupato delle sorelle. Nella biografia scritta dalla sorella Maria, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, il futuro poeta è presentato come un ragazzo solido e vivace, il cui carattere non è stato alterato dalle disgrazie; per anni, infatti, le sue reazioni parvero essere volitive e tenaci, nell’impegno a terminare il liceo e a cercare i mezzi per proseguire gli studi universitari, nonché nel puntiglio, sempre frustrato, nel ricercare e perseguire l’assassino del padre. Questo desiderio di giustizia non sarà mai voglia di vendetta, e Pascoli si pronuncerà sempre contro la pena di morte e contro l’ergastolo, per motivi principalmente umanitari. I primi studi Nel 1871, all’età di quindici anni e dopo la morte del fratello Luigi avvenuta per meningite il 19 ottobre dello stesso anno, Giovanni Pascoli dovette lasciare il collegio Raffaello dei padri Scolopi di Urbino; si trasferì a Rimini, per frequentare il liceo classico Giulio Cesare. Giovanni giunse a Rimini assieme ai suoi cinque fratelli: Giacomo (19 anni), Raffaele (14), Alessandro Giuseppe, (12), Ida (8), Maria (6, chiamata affettuosamente Mariù). «L’appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», scrive Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario». Pascoli terminò infine gli studi liceali a Cesena dopo aver frequentato il ginnasio ed il liceo al prestigioso Liceo Dante di Firenze, ed aver fallito l’esame di licenza a causa delle materie scientifiche. L’università e l’impegno politico Grazie ad una borsa di studio di 600 lire (che poi perse per aver partecipato ad una manifestazione studentesca) Pascoli si iscrisse all’Università di Bologna, dove ebbe come docenti il poeta Giosuè Carducci e il latinista Giovanni Battista Gandino, e diventò amico del poeta e critico Severino Ferrari. Conosciuto Andrea Costa e avvicinatosi al movimento anarco-socialista, cominciò, nel 1877, a tenere comizi a Forlì e a Cesena. Durante una manifestazione socialista a Bologna, dopo l’attentato fallito dell’anarchico lucano Giovanni Passannante ai danni del re Umberto I, il giovane poeta lesse pubblicamente un proprio sonetto dal presunto titolo Ode a Passannante. L’ode venne subito dopo strappata (probabilmente per timore di essere arrestato o forse pentito, pensando all’assassinio del padre) e di essa si conoscono solamente gli ultimi due versi tramandati oralmente: «colla berretta d’un cuoco, faremo una bandiera».La paternità del componimento fu oggetto di controversie: sia la sorella Maria sia lo studioso Piero Bianconi negarono che egli avesse scritto tale ode (Bianconi la definì «la più celebre e citata delle poesie inesistenti della letteratura italiana»). Benché non vi sia alcuna prova tangibile sull’esistenza dell’opera, Gian Battista Lolli, vecchio segretario della federazione socialista di Bologna e amico del Pascoli, dichiarò di aver assistito alla lettura e attribuì al poeta la realizzazione della lirica. Pascoli fu arrestato il 7 settembre 1879, per aver partecipato ad una protesta contro la condanna di alcuni anarchici, i quali erano stati a loro volta imprigionati per i disordini generati dalla condanna di Passannante. Durante il loro processo, il poeta urlò: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!»Dopo poco più di cento giorni, esclusa la maggiore gravità del reato, con sentenza del 18 novembre 1879, la Corte d’Appello rinviò gli imputati – Pascoli e Ugo Corradini – davanti al Tribunale: il processo, in cui Pascoli era difeso dall’avvocato Barbanti, ebbe luogo il 22 dicembre, chiamato a testimone anche il maestro Giosuè Carducci che inviò una sua dichiarazione: "Il Pascoli non ha capacità a delinquere in relazione ai fatti denunciati". Viene assolto ma attraversa un periodo difficile, medita il suicidio ma il pensiero della madre defunta lo fa desistere, come dirà nella poesia La voce. Alla fine riprende gli studi con impegno. Nonostante le simpatie verso il movimento anarco-socialista in età giovanile, nel 1900, quando Umberto I venne ucciso da un altro anarchico, Gaetano Bresci, Pascoli rimase amareggiato dall’accaduto e compose la poesia Al Re Umberto. Abbandona la militanza politica, mantenendo un socialismo umanitario che incoraggiasse l’impegno verso i deboli e la concordia universale tra gli uomini, argomento di alcune liriche: La docenza Dopo la laurea, conseguita nel 1882 con una tesi su Alceo, Pascoli intraprese la carriera di insegnante di latino e greco nei licei di Matera e di Massa. Dopo le vicissitudini e i lutti, il poeta aveva finalmente ritrovato la gioia di vivere e di credere nel futuro. Ecco cosa scrive all’indomani della laurea da Argenta:"Il prossimo ottobre andrò professore, ma non so ancora dove: forse lontano; ma che importa? Tutto il mondo è paese ed io ho risoluto di trovar bella la vita e piacevole il mio destino". Su richiesta delle sorelle Ida e Maria, fino al 1882 nel convento di Sogliano, Pascoli riformulò il proprio progetto di vita, sentendosi in colpa per avere abbandonato le sorelle negli anni universitari. Ecco a tale proposito una lettera di Giovanni scritta da Argenta il 3 luglio 1882, il quale, ripreso dalle sorelle per averle abbandonate, così risponde: “Povere bambine! Sotto ogni parola di quella vostra lettera così tenera, io leggevo un rimprovero per me, io intravedevo una lagrima!." E ancora da Matera il poeta scrive nell’ottobre del 1882: “Amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate nell’ombra del chiostro [...] Amate voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti di mite contentezza, m’amate almeno come le gentili compagne delle vostre gioie e consolatrici dei vostri dolori?". Il 22 settembre 1882 era stato iniziato alla massoneria, presso la loggia “Rizzoli” di Bologna. Il testamento massonico autografo del Pascoli, a forma di triangolo (il triangolo è un simbolo massonico), è stato rinvenuto nel 2002. Dal 1887 al 1895 insegnò a Livorno al Ginnasio-Liceo “Guerrazzi e Niccolini”, nel cui archivio si trovano ancora lettere e appunti scritti di suo pugno. Intanto iniziò la collaborazione con la rivista Vita nuova, su cui uscirono le prime poesie di Myricae, raccolta che continuò a rinnovarsi in cinque edizioni fino al 1900. Vinse inoltre per ben tredici volte la medaglia d’oro al Concorso di poesia latina di Amsterdam, col poemetto Veianus e coi successivi Carmina. Nel 1894 fu chiamato a Roma per collaborare con il Ministero della pubblica istruzione. Nella capitale fece la conoscenza di Adolfo de Bosis, che lo invitò a collaborare alla rivista Convito (dove sarebbero infatti apparsi alcuni tra i componimenti più tardi riuniti nel volume Poemi conviviali), e di Gabriele D’Annunzio, il quale lo stimava, anche se il rapporto tra i due poeti fu sempre complesso. Il “nido” di Castelvecchio Divenuto professore universitario nel 1895 e costretto dalla sua professione a lavorare in più città (Bologna, Messina e Pisa), egli non si radicò mai in esse, preoccupandosi sempre di garantirsi una “via di fuga” verso il proprio mondo di origine, quello agreste. Tuttavia il punto di arrivo sarebbe stato sul versante appenninico opposto a quello da cui proveniva la sua famiglia. Nel 1895 infatti si trasferì con la sorella Maria nella Media Valle del Serchio nel piccolo borgo di Castelvecchio nel comune di Barga, in una casa che divenne la sua residenza stabile quando (impegnando anche alcune medaglie d’oro vinte al Concorso di poesia latina di Amsterdam) poté acquistarla. Dopo il matrimonio della sorella Ida con il romagnolo Salvatore Berti, matrimonio che il poeta aveva contemplato e seguito sin dal 1891, Pascoli vivrà in seguito alcuni mesi di grande sofferenza per l’indifferenza della sorella Ida nei suoi confronti e le continue richieste economiche da parte di lei e del marito, vivendo la cosa come una profonda ferita dopo i dieci anni di sacrifici e dedizione alle sorelle, a causa delle quali il poeta aveva di fatto più volte rinunciato all’amore. A tale proposito, una mostra dedicata agli "Amori di Zvanì" e allestita dal Museo Casa Pascoli nel 2013, getta luce sulle vicende amorose inedite di Pascoli, chiarendo finalmente il suo desiderio più volte manifestato di crearsi una propria famiglia. Molti particolari della vita personale, emersi dalle lettere private, furono taciuti dalla celebre biografia scritta da Maria Pascoli, poiché giudicati da lei sconvenienti o non conosciuti.Il fidanzamento con la cugina Imelde Morri di Rimini, all’indomani delle nozze di Ida, organizzato all’insaputa di Mariù, dimostra infatti il reale intento del poeta. Di fronte alla disperazione di Mariù, che non avrebbe mai accettato di sposarsi, né l’ingerenza di un’altra donna in casa sua, Pascoli ancora una volta rinuncerà al proposito di vita coniugale. Si può affermare che la vita moderna della città non entrò mai, neppure come antitesi, come contrapposizione polemica, nella poesia pascoliana: egli, in un certo senso, non uscì mai dal suo mondo, che costituì, in tutta la sua produzione letteraria, l’unico grande tema, una specie di microcosmo chiuso su sé stesso, come se il poeta avesse bisogno di difenderlo da un minaccioso disordine esterno, peraltro sempre innominato e oscuro, privo di riferimenti e di identità, come lo era stato l’assassino di suo padre. Sul tormentato rapporto con le sorelle– il “nido” familiare che ben presto divenne “tutto il mondo” della poesia di Pascoli– ha scritto parole di estrema chiarezza il poeta Mario Luzi: In particolare si fecero difficili i rapporti con Giuseppe, che mise più volte in imbarazzo Giovanni a Bologna, ubriacandosi continuamente in pubblico nelle osterie, e con il marito di Ida, il quale nel 1910, dopo aver ricevuto in prestito dei soldi da Giovanni, partì per l’America lasciando in Italia la moglie e le tre figlie. Gli ultimi anni Le trasformazioni politiche e sociali che agitavano gli anni di fine secolo e preludevano alla catastrofe bellica europea, gettarono progressivamente Pascoli, già emotivamente provato dall’ulteriore fallimento del suo tentativo di ricostruzione familiare, in una condizione di insicurezza e pessimismo ancora più marcati, che lo condussero in una fase di depressione e nel baratro dell’alcolismo: il poeta abusava di vino e cognac, come riferisce anche nelle lettere. Le uniche consolazioni sono la poesia, e il suo “nido di Castelvecchio”, dopo la perdita della fede trascendente, cercata e avvertita comunque nel senso del mistero universale, in una sorta di agnosticismo mistico, come testimonia una missiva al cappellano militare padre Giovanni Semeria: «Io penso molto all’oscuro problema che resta... oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse». Mentre insegnava latino e greco nelle varie università dove aveva accettato l’incarico, pubblicò anche i volumi di analisi dantesca Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902). Nel 1906 assunse la cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna succedendo a Carducci. Qui ebbe allievi che sarebbero stati poi celebri, tra cui Aldo Garzanti. Nel novembre 1911, presenta al concorso indetto dal Comune di Roma per celebrare il cinquantesimo dell’Unità d’Italia, il poema latino Inno a Roma in cui riprendendo un tema già anticipato nell’ode Al corbezzolo esalta Pallante come il primo morto per la causa nazionale e poi deposto su rami di corbezzolo che con i fiori bianchi, le bacche rosse e le foglie verdi, vengono visti come un’anticipazione della bandiera tricolore. Scoppiata la guerra italo-turca, presso il teatro di Barga pronuncia il celebre discorso a favore dell’imperialismo La grande Proletaria si è mossa: egli sostiene infatti che la Libia sia parte dell’Italia irredenta, e l’impresa sia anche a favore delle popolazioni sottomesse alla Turchia, oltre che positiva per i contadini italiani, che avranno nuove terre. Si tratta, in sostanza, non di nazionalismo vero e proprio, ma di un’evoluzione delle sue utopie socialiste e patriottiche. Il 31 dicembre 1911 compie 56 anni; sarà il suo ultimo compleanno: poco tempo dopo le sue condizioni di salute peggiorano. Il medico gli consiglia di lasciare Castelvecchio e trasferirsi a Bologna, dove gli viene diagnosticata la cirrosi epatica per l’abuso di alcool; nelle memorie della sorella viene invece affermato che fosse malato di epatite e tumore al fegatoIl certificato di morte riporta come causa un tumore allo stomaco, ma è probabile fosse stato redatto dal medico su richiesta di Mariù, che intendeva eliminare tutti gli aspetti che lei giudicava sconvenienti dall’immagine del fratello, come la dipendenza da alcool, la simpatia giovanile per Passannante e la sua affiliazione alla Massoneria. La malattia lo porta infatti alla morte il 6 aprile 1912, un Sabato Santo vigilia di Pasqua, nella sua casa di Bologna, in via dell’Osservanza n. 2; la vera causa del decesso fu probabilmente la cirrosi epatica. Pascoli venne sepolto nella cappella annessa alla sua dimora di Castelvecchio di Barga, dove sarà tumulata anche l’amata sorella Maria, sua biografa, nominata erede universale nel testamento, nonché curatrice delle opere postume. Il profilo letterario: la sua rivoluzione poetica L’esperienza poetica pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del decadentismo europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana: essa affonda le radici in una visione pessimistica della vita in cui si riflette la scomparsa della fiducia, propria del Positivismo, e in una conoscenza in grado di spiegare compiutamente la realtà. Il mondo appare all’autore come un insieme misterioso e indecifrabile tanto che il poeta tende a rappresentare la realtà con una pennellata impressionistica che colga solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile per l’autore avere una concreta visione d’insieme. Coerentemente con la visione decadente, il poeta si configura come un “veggente”, mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile: nel Fanciullino, Pascoli afferma quanto il poeta fanciullino sappia dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa e alogica. La formazione letteraria La fase cruciale della formazione letteraria di Pascoli va fatta risalire ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla Facoltà di Lettere (1873-1882). Allievo di Carducci, che si accorse subito delle qualità del giovane Pascoli, nella cerchia ristretta dell’ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli visse gli anni più movimentati della sua vita. Qui, protetto comunque dalla naturale dipendenza tra maestro e allievo, Pascoli non ebbe bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, dovendo limitarsi a seguire gli indirizzi e i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana. Nel 1875 perse la borsa di studio e con essa l’unico mezzo di sostentamento su cui poteva contare. La frustrazione e i disagi materiali lo spinsero verso il movimento socialista in quella che fu una delle poche, brevi parentesi politiche della sua vita. Nel 1879 venne arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere; l’ulteriore senso di ingiustizia e la delusione lo riportarono nell’alveo d’ordine del maestro Carducci e al compimento degli studi con una tesi sul poeta greco Alceo. A margine degli studi veri e propri, egli, comunque, condusse una vasta esplorazione del mondo letterario e anche scientifico straniero, attraverso le riviste francesi specializzate come la Revue des deux Mondes, che lo misero in contatto con l’avanguardia simbolista, e la lettura dei testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henri Fabre e Maurice Maeterlinck. Tali testi utilizzavano la descrizione naturalistica– la vita degli insetti soprattutto, per quell’attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento– in chiave poetica; l’osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. Era un atteggiamento positivista “romanticheggiante” che tendeva a vedere nella natura l’aspetto pre-cosciente del mondo umano. Coerentemente con questi interessi, vi fu anche quello per la cosiddetta “filosofia dell’inconscio” del tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann, l’opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in queste letture– come in quella successiva dell’opera dell’inglese James Sully sulla “psicologia dei bambini”– un’attrazione di Pascoli verso il “mondo piccolo” dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua. Per tutto l’Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell’infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I Romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Rousseau, avevano paragonato l’infanzia allo stato primordiale “di natura” dell’umanità, inteso come una sorta di età dell’oro. Verso gli anni Ottanta si cominciò, invece, ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell’infanzia, portando l’attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l’infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell’Ottocento. Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di H.C. Andersen (1872), di Ruskin (1851), Wilde (1888), Maurice Maeterlinck (1909); o come il capolavoro di Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all’infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Kipling, Twain, Salgari, London. O libri sull’infanzia, dall’intento moralistico ed educativo, come Senza famiglia di Malot (1878), Il piccolo Lord di F.H. Burnett (1886), Piccole donne di Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887). Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del Fanciullino, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso e un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all’Italia mancava dall’epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l’elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé. La poesia come “nido” che protegge dal mondo Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di ogni cosa; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l’irrazionalità e l’intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il Positivismo, che era l’esaltazione della ragione stessa e del progresso, approdando così al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma in realtà una connessione, a volte anche un po’ forzata, è presente tra i concetti, e il poeta spesso e volentieri è costretto a voli vertiginosi per mettere in comunicazione questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere “umili cose”: cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel “nido”, riproponendo il passato di lutti e di dolori e inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del “nido”. Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il “paradiso perduto” dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell’arretratezza economica e culturale di gran parte dell’Italia rispetto all’evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l’Inghilterra. I “luoghi” poetici della “terra”, del “borgo”, dell’"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del primo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l’ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto. Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: «C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall’immutabile destino».In questa contrapposizione tra l’esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l’interiorità dell’esistenza familiare (e agreste) si racchiude l’idea dominante – accanto a quella della morte – della poesia pascoliana. Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell’Università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un “centro”, rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte. Fu come se, sopraffatto da un’angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l’unico mezzo per costringere le paure e i fantasmi dell’esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo “recinto” poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo, costruendo una raccolta di versi e di forme che la letteratura italiana non vedeva, per complessità e varietà, dai tempi di Chiabrera. La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli– mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via– è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall’inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva. Anche se l’ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1906, comprendenti gli inni Ad Antonio Fratti, Al re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni, Andrée, nonché l’ode, aggiunta nella terza edizione, Chavez; Poemi italici del 1911; Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa, tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c’è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903), nei quali il poeta trae spunto dall’ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla ("In viaggio"), nonché parte dei Poemetti. Il “mondo” di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell’anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati. Il poeta e il fanciullino Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale scritto Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell’inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta – almeno secondo il suo punto di vista – della poesia (dichiarazione poetica). Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo: dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell’uomo adulto; della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell’animo umano.Caratteristiche del fanciullino: “Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella”. “Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione”. “Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa– effetto, ma intuisce”. “Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose". “Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo”. Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma: Possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni; Comunica verità latenti agli uomini: è “Adamo”, che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale). Deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire); Percepisce l’essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell’uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall’infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un’altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso, tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale. È vero che la vicenda autobiografica dell’autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale: ad esempio la morte del padre viene percepita come l’esempio principe della descrizione dell’universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto raffigura il male del mondo in generale. Tuttavia, nel passo XI de “Il fanciullino”, Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta: il Classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime le proprie sensazioni. il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l’uomo e il poeta. Pascoli fu anche commentatore e critico dell’opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale “Biblioteca dei Popoli”. Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall’ostentata pateticità e dall’eccessiva ricerca dell’effetto commovente. D’altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell’impresa di far uscire la poesia italiana dall’eccessiva aulicità e retoricità non solo del Carducci e del Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D’Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d’Oltralpe e di respiro europeo. La lingua pascoliana è profondamente innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli e immagini, con brevi frasi, musicali e suggestive. La poesia cosmica Fanno parte di questa produzione pascoliana liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine (Nuovi Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: "E la terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella". Si tratta di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo ( La Vertigine). La Terra è errante nel vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la vera dimora dell’uomo rapito come da un vento cosmico. Scrive il critico Giovanni Getto: " È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire la realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell’emozione fantastica, nonostante la chiara nozione copernicana sul piano intellettuale, del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione eliocentrica o addirittura galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro di sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia". La lingua pascoliana Pascoli disintegra la forma tradizionale del linguaggio poetico: con lui la poesia italiana perde il suo tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con frasi brevi, musicali e suggestive. Il linguaggio è fonosimbolico con un frequente uso di onomatopee, metafore, sinestesie, allitterazioni, anafore, vocaboli delle lingue speciali (gerghi). La disintegrazione della forma tradizionale comporta “il concepire per immagini isolate (il frammentismo), il periodo di frasi brevi e a sobbalzi (senza indicazione di passaggi intermedi, di modi di sutura), pacatamente musicali e suggestive; la parola circondata di silenzio. ” Pascoli ha rotto la frontiera tra grammaticalità e evocatività della lingua. E non solo ha infranto la frontiera tra pregrammaticalità e semanticità, ma ha anche annullato "il confine tra melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti. In una parola egli ha rotto la frontiera fra determinato e indeterminato". Pascoli e il mondo degli animali In un’epoca storica in cui il mondo degli animali rappresenta un’entità assai ridotta nella vita degli uomini e dei loro sentimenti, quasi esclusivamente relegato agli aspetti di utilizzo pratico e di supporto al lavoro, soprattutto agricolo, Pascoli riconosce la loro dignità e squarcia un’originale apertura sull’esistenza delle specie animali e sul loro originale mondo di relazioni. Come scrive Maria Cristina Solfanelli, «Giovanni Pascoli si avvede assai presto che il suo amore per la natura gli permette di vivere le esperienze più appaganti, se non fondamentali, della sua vita. Lui vede negli animali delle creature perfette da rispettare, da amare e da accudire al pari degli esseri umani; infatti, si relaziona con essi, ci parla di loro e, spesso, prega affinché possano avere un’anima per poterli rivedere un giorno». Opere Approfondimenti Myricae Il libro Myricae è la prima vera e propria raccolta di poesie del Pascoli, nonché una delle più amate. Il titolo riprende una citazione di Virgilio all’inizio della IV Bucolica in cui il poeta latino proclama di innalzare il tono poetico poiché “non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici” (non omnes arbusta iuvant humilesque myricae). Pascoli invece propone “quadretti” di vita campestre in cui vengono evidenziati particolari, colori, luci, suoni i quali hanno natura ignota e misteriosa. Il libro crebbe per il numero delle poesie in esso raccolte. Nel 1891, data della sua prima edizione, il libro raccoglieva soltanto 22 poesie dedicate alle nozze di amici. Nel 1903, la raccolta definitiva comprendeva 156 liriche del poeta. I componimenti sono dedicati al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi e alla vita contadina. Le myricae, le umili tamerici, diventano un simbolo delle tematiche del Pascoli ed evocano riflessioni profonde. La descrizione realistica cela un significato più ampio così che, dal mondo contadino si arriva poi ad un significato universale. La rappresentazione della vita nei campi e della condizione contadina è solo all’apparenza il messaggio che il poeta vuole trasmettere con le sue opere. In realtà questa frettolosa interpretazione della poetica pascoliana fa da scenario a stati d’animo come inquietudini ed emozioni. Il significato delle Myricae va quindi oltre l’apparenza. Nell’edizione del 1897 compare la poesia Novembre, mentre nelle successive compariranno anche altri componimenti come L’Assiuolo. Pascoli ha dedicato questa raccolta alla memoria di suo padre ("A Ruggero Pascoli, mio padre"). La produzione latina Giovanni Pascoli fu anche autore di poesie in lingua latina e con esse vinse per ben tredici volte il Certamen Hoeufftianum, un prestigioso concorso di poesia latina che annualmente si teneva ad Amsterdam. La produzione latina accompagnò il poeta per tutta la sua vita: dai primi componimenti scritti sui banchi del collegio degli Scolopi di Urbino, fino al poemetto Thallusa, la cui vittoria il poeta apprese solo sul letto di morte nel 1912. In particolare, l’anno 1892 fu insieme l’anno della sua prima premiazione con il poemetto Veianus e l’anno della stesura definitiva delle Myricae. Tra la sua produzione latina, vi è anche il carme alcaico Corda Fratres, composto nel 1898, pubblicato nel 1902, inno ufficiale della Fédération internationale des étudiants, una confraternita studentesca meglio nota come Corda Fratres. Pascoli amava molto il latino, che può essere considerato la sua lingua del cuore: il poeta scriveva in latino, prendeva appunti in latino, spesso pensava in latino, trasponendo poi espressioni latine in italiano; la sorella Maria ricorda che dal suo letto di morte Pascoli parlò in latino, anche se la notizia è considerata dai più poco attendibile, dal momento che la sorella non conosceva questa lingua. Per lungo tempo la produzione latina pascoliana non ha ricevuto l’attenzione che merita, essendo stata erroneamente considerata quale un semplice esercizio del poeta. Il Pascoli in quegli anni non era infatti l’unico a cimentarsi nella poesia latina (Giuseppe Giacoletti, un insegnante nel collegio degli Scolopi di Urbino frequentato dal Pascoli, vinse l’edizione del Certamen del 1863 con un poemetto sulle locomotive a vapore); ma Pascoli lo fece in maniera nuova e con risultati, poetici e linguistici, sorprendenti. L’attenzione verso questi componimenti si accese con la raccolta in due volumi curata da Ermenegildo Pistelli nel 1914, col saggio di Adolfo Gandiglio nell’edizione del 1930. Esistono delle traduzioni in lingua italiana delle poesie latine di Pascoli quali quella curata da Manara Valgimigli o le traduzioni di Enzo Mandruzzato. Tuttavia la produzione latina ha un significato fondamentale, essendo coerente con la poetica del Fanciullino, la cifra del pensiero pascoliano. In realtà, la poetica del Fanciullino è la confluenza di due differenti poetiche: la poetica della memoria e la poetica delle cose. Gran parte della poesia pascoliana nasce dalle memorie, dolci e tristi, della sua infanzia: "Ditelo voi [...], se la poesia non è solo in ciò che fu e in ciò che sarà, in ciò che è morto e in ciò che è sogno! E dite voi, se il sogno più bello non è sempre quello in cui rivive ciò che è morto". Pascoli dunque intende fare rivivere ciò che è morto, attingendo non solo al proprio ricordo personale, bensì travalica la propria esperienza, descrivendo personaggi facenti parte anche dell’evo antico: infanzia e mondo antico sono le età nelle quali l’uomo vive o è vissuto più vicino ad una sorta di stato di natura. “Io sento nel cuore dolori antichissimi, pure ancor pungenti. Dove e quando ho provato tanti martori? Sofferto tante ingiustizie? Da quanti secoli vive al dolore l’anima mia? Ero io forse uno di quegli schiavi che giravano la macina al buio, affamati, con la museruola?”. Contro la morte – delle lingue, degli uomini e delle epoche – il poeta si appella alla poesia: essa è la sola, la vera vittoria umana contro la morte. "L’uomo alla morte deve disputare, contrastare, ritogliere quanto può". Ma da ciò non consegue di necessità l’uso del latino. Qui interviene l’altra e complementare poetica pascoliana: la poetica delle cose. "Vedere e udire: altro non deve il poeta. Il poeta è l’arpa che un soffio anima, è la lastra che un raggio dipinge. La poesia è nelle cose". Ma questa aderenza alle cose ha una conseguenza linguistica di estrema importanza, ogni cosa deve parlare quanto più è possibile con la propria voce: gli esseri della natura con l’onomatopea, i contadini col vernacolo, gli emigranti con l’italo-americano, Re Enzio col bolognese del Duecento; i Romani, naturalmente, parleranno in latino. Dunque il bilinguismo di Pascoli in realtà è solo una faccia del suo plurilinguismo. Bisogna tenere conto anche di un altro elemento: il latino del Pascoli non è la lingua che abbiamo appreso a scuola. Questo è forse il secondo motivo per il quale la produzione latina pascoliana è stata per anni oggetto di scarso interesse: per poter leggere i suoi poemetti latini è necessario essere esperti non solo del latino in generale, ma anche del latino di Pascoli. Si è già fatto menzione del fatto che nello stesso periodo, e anche prima di lui, altri autori avevano scritto in latino; scrivere in latino per un moderno comporta due differenti e contrapposti rischi. L’autore che si cimenti in questa impresa potrebbe, da una parte, incappare nell’errore di esprimere una sensibilità moderna in una lingua classica, cadendo in un latino maccheronico; oppure potrebbe semplicemente imitare gli autori classici, senza apportare alcuna novità alla letteratura latina. Pascoli invece reinventa il latino, lo plasma, piega la lingua perché possa esprimere una sensibilità moderna, perché possa essere una lingua contemporanea. Se oggi noi parlassimo ancora latino, forse parleremmo il latino di Pascoli. (cfr. Alfonso Traina, Saggio sul latino del Pascoli, Pàtron). Numerosi sono i componimenti, in genere raggruppati in diverse raccolte secondo l’edizione del Gandiglio, tra le quali: Poemata Christiana, Liber de Poetis, Res Romanae, Odi et Hymni. Due sembrano essere i temi favoriti del poeta: Orazio, poeta della aurea mediocritas, che Pascoli sentiva come suo alter ego, e le madri orbate, cioè private del loro figlio (cfr. Thallusa, Pomponia Graecina, Rufius Crispinus). In quest’ultimo caso il poeta sembra come ribaltare la sua esperienza personale di orfano, privando invece le madri del loro ocellus ("occhietto", come Thallusa chiama il bambino). I Poemata Christiana sono da considerarsi il suo capolavoro in lingua latina. In essi Pascoli traccia, attraverso i vari poemetti, tutti in esametri, la storia del Cristianesimo in Occidente: dal ritorno a Roma del centurione che assistette alla morte di Cristo sul Golgota (Centurio), alla penetrazione del Cristianesimo nella società romana, dapprima attraverso gli strati sociali di condizione servile (Thallusa), poi attraverso la nobiltà romana (Pomponia Graecina), fino al tramonto del paganesimo (Fanum Apollinis). Biblioteca e archivio personali * La sua biblioteca e il suo archivio sono depositati sia nella Casa Pascoli a Castelvecchio Pascoli frazione di Barga, sia alla Biblioteca statale di Lucca. A San Mauro Pascoli la sua casa natale –dichiarata Monumento nazionale nel 1924- è sede di un museo dedicato alla memoria del poeta è direttore del Museo Alessandro Marchi. Periodicamente sono organizzate delle iniziative culturali. Onori * Nel 2009 Alitalia gli dedica uno dei suoi Airbus A320-216 (EI-DTJ). * Nel 2012, in occasione del centenario della morte del poeta, varie città gli dedicano importanti manifestazioni. Oltre a San Mauro Pascoli e Barga, si possono ricordare Forlì, Lecce, Messina e Urbino. * Nel 2012 viene anche coniata una moneta celebrativa da due euro. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pascoli
Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta e scrittore italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975. Biografia Anni giovanili Eugenio Montale nacque a Genova, in un palazzo dell’attuale corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, ultimo dei cinque figli di Domenico Montale e Giuseppina Ricci, esponenti della media borghesia genovese. Il padre era comproprietario di una ditta di prodotti chimici, la società G. G. Montale & C., tra l’altro fornitrice di Veneziani S.p.A., azienda presso cui era impiegato Italo Svevo. Crescita Inizia gli studi all’istituto “Vittorino Da Feltre” di Via Maragliano gestito dai Barnabiti (rettore è padre Rodolfo Trabattoni, vice rettore padre Giovanni Semeria). Il 21 maggio riceve la cresima. Sebbene per lui vengano preferiti, a causa della sua salute precaria, i più brevi studi tecnici in luogo di quelli classici e venga dunque iscritto nel 1915 all’istituto tecnico commerciale “Vittorio Emanuele”, dove si diplomerà in ragioneria, il giovane Montale ha la possibilità di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia. La sua formazione è dunque quella tipica dell’autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti. Letteratura (Dante, Petrarca, Boccaccio e D’Annunzio su tutti, autori che lo stesso Montale affermerà di avere “attraversato”) e lingue straniere sono il terreno in cui getta le prime radici, la sua formazione e il suo immaginario, assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di Levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorre le vacanze. «Scabri ed essenziali», come egli definì la sua stessa terra, gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l’osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano – la natura mediterranea e le donne della famiglia. Ma quel “piccolo mondo” è sorretto intellettualmente da una vena linguistica nutrita di queste lunghe letture, finalizzate soprattutto al piacere della conoscenza e della scoperta. In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l’ex baritono Ernesto Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica, anche se non si esibirà mai in pubblico. Riceverà comunque già nel 1942 dediche da Tommaso Landolfi, fondatore con altri della rivista Letteratura. Grande Guerra e avvento del Fascismo Nell’anno 1917, dopo quattro visite mediche, è dichiarato idoneo al servizio militare, a settembre è arruolato nel 23º fanteria a Novara, frequenta a Parma il corso allievi ufficiali di complemento ottenendo il grado di sottotenente di fanteria e chiede di essere inviato al fronte. Dall’aprile 1917 combatte in Vallarsa, inquadrato nei “Leoni di Liguria” del 158º Reggimento fanteria ed il 3 novembre 1918 conclude l’esperienza combattente entrando a Rovereto. In seguito fu trasferito a Chienes, poi al campo di reduci di guerra dell’Eremo di Lanzo e, infine, fu congedato con il grado di tenente all’inizio del 1920. Negli anni tra il 1919 e il 1923 conosce a Monterosso Anna degli Uberti (1904-1959), protagonista femminile in un insieme di poesie montaliane, trasversali nelle varie opere, note come “ciclo di Arletta” (chiamata anche Annetta o capinera). Nel 1924 conosce la giovane di origine peruviana Paola “Edda” Nicoli, anch’ella presente negli Ossi di seppia e ne Le occasioni. È il momento dell’affermazione del fascismo, dal quale Montale prende subito le distanze sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Il suo antifascismo ha una dimensione non tanto politica quanto culturale: esso si nutre di un disagio esistenziale e di un sentimento di malessere nei confronti della civiltà moderna tout court. È un antifascismo aristocratico e snobistico. Montale vive questo periodo nella “reclusione” della provincia ligure, che gli ispira una visione profondamente negativa della vita. Il suo pessimismo non essendo immediatamente riconducibile alla politica sopravvive anche dopo l’avvento della democrazia: è evidente ne La bufera e altro nel suo non riconoscersi nei due partiti di massa (DC e PCI) e nella società dei consumi. Soggiorno a Firenze Montale giunge a Firenze nel 1927 per il lavoro di redattore ottenuto presso l’editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa: le Edizioni de La Voce; i Canti Orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per Lacerba; e l’accoglienza di poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba. Montale, dopo l’edizione degli Ossi del 1925, nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux. Curiosamente, come ricordava lo stesso Montale, fu inserito in una lista di possibili candidati da Paolo Emilio Pavolini e venne scelto dall’allora podestà fiorentino Giuseppe Della Gherardesca, essendo l’unico non iscritto al Partito Fascista. Dieci anni più tardi, per l’identico motivo, Montale venne esonerato dall’incarico, dopo che per 18 mesi gli era stato sospeso lo stipendio, nel tentativo di “incoraggiarlo” ad iscriversi al PNF.In quegli anni collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi e Elio Vittorini, e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di ricerca poetica. In questo contesto prova anche l’arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l’impasto dei colori e l’uso dei pennelli. Nel '29 è ospite nella casa di Drusilla Tanzi (che aveva conosciuto nel '27) e del marito, lo storico d’arte Matteo Marangoni, casa dove due anni prima gli avevano presentato anche Gerti Frankl. La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e complicati rapporti sentimentali; nel 1933 conosce l’italianista americana Irma Brandeis, con cui avvia una quinquennale storia d’amore, cantandola con il nome di Clizia in molte poesie confluite ne Le occasioni. Legge molto Dante e Svevo, e i classici americani. Fino al 1948, l’anno del trasferimento a Milano, egli pubblica Le occasioni e le prime liriche di quelle che formeranno La bufera e altro (che uscirà nel 1956). Montale, che non si era iscritto al Partito fascista e dopo il delitto di Giacomo Matteotti era stato firmatario del manifesto crociano, prova subito dopo la guerra ad iscriversi al Partito d’azione, ma ne esce pochissimo tempo dopo. Soggiorno a Milano Montale trascorre l’ultima parte della sua vita (dal 1948 alla morte) a Milano. Diventa redattore del Corriere della Sera e critico musicale per il “Corriere d’informazione”. Scrive inoltre reportage culturali da vari Paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Terra Santa). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la terza pagina, avvalendosi anche della collaborazione dell’amico americano Henry Furst, il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti da lui stesso richiesti. La vicenda venne rivelata da Mario Soldati nel racconto “Due amici” (Montale e Furst) nel volume Rami secchi (Rizzoli 1989) e soprattutto da Marcello Staglieno, con la pubblicazione su una terza pagina de il Giornale diretto da Indro Montanelli di alcune delle lettere inedite di Montale all’amico. Nel 1956, oltre a La bufera esce anche la raccolta di prose Farfalla di Dinard. Amava anche collaborare con vari artisti ed è il caso ad esempio di Renzo Sommaruga, scultore e artista figurativo, di cui nel 1957 scrisse la presentazione della sua personale parigina e che si può trovare nel Secondo Mestiere. Il 23 luglio 1962 sposa Drusilla Tanzi, con cui conviveva dal 1939, di dieci anni più anziana di lui, con rito religioso a Montereggi, presso Fiesole; il rito civile viene celebrato a Firenze il 30 aprile 1963 (Matteo Marangoni, primo marito di lei, era morto nel 1958), la quale morirà tuttavia a Milano il 20 ottobre dello stesso anno all’età di 77 anni. La salute di Drusilla si era rapidamente deteriorata, per la frattura di un femore in seguito a una caduta accidentale nell’agosto di quell’anno. Nel 1969 viene pubblicata un’antologia dei reportage di Montale, intitolata Fuori di casa, in richiamo al tema del viaggio. Il mondo di Montale, tuttavia, risiede in particolare nella “trasognata solitudine”, come la definisce Angelo Marchese, del suo appartamento milanese di via Bigli, dove viene amorevolmente assistito, alla morte di Drusilla, da Gina Tiossi. Ultimi anni Le ultime raccolte di versi, Xenia (1966, dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963), Satura (1971) e Diario del '71 e del '72 (1973), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta – ironico e mai amaro – dalla Vita con la maiuscola: «pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 1976). Sempre nel 1966 Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso. Anche se poeta trasognato e “dimesso”, è anche stato oggetto di riconoscimenti ufficiali: lauree honoris causa (Università di Milano nel 1961, Università di Cambridge 1967, La Sapienza 1974). Fu nominato senatore a vita il 13 giugno 1967 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per i meriti in campo letterario, aderendo al gruppo del PLI e poi a quello del PRI.Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell’impegno politico degli intellettuali, Montale continuò ad essere un poeta molto letto in Italia. Nel 1975 ricevette il Premio Nobel per la letteratura «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni».. Nel 1976 scrisse il commiato funebre al suo collega defunto, il salernitano Alfonso Gatto. L’anno seguente gli fu chiesto se, una volta sorteggiato, avrebbe accettato di fare il giurato in un processo contro le Brigate Rosse: “Credo di no”, rispose l’anziano poeta, "sono un uomo come gli altri e non si può chiedere a nessuno di fare l’eroe".Eugenio Montale morì a Milano la sera del 12 settembre 1981, un mese prima di compiere 85 anni, nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vasculopatia cerebrale. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo nel Duomo di Milano dall’allora arcivescovo della diocesi Carlo Maria Martini. Venne sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla. Nella seduta del successivo 8 ottobre, il Senato commemorò la figura di Montale, attraverso i discorsi del presidente Amintore Fanfani e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Le opere * Le raccolte di versi contengono la storia della sua poesia: * Ossi di seppia, Torino, Gobetti, 1925. * La casa dei doganieri e altri versi, Firenze, Vallecchi, 1932. * Poesie, Firenze, Parenti, 1938. * Le occasioni, Torino, Einaudi, 1939. * Finisterre. Versi del 1940-42, Lugano, Collana di Lugano, 1943. * Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948. * La bufera e altro, Venezia, Neri Pozza, 1956. * Farfalla di Dinard, Venezia, Neri Pozza, 1956. * Xenia. 1964-1966, San Severino Marche, Bellabarba, 1966. * Auto da fé. Cronache in due tempi, Milano, Il Saggiatore, 1966. Fuori di casa, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969; Collana SIS, Mondadori, 1973; Oscar Moderni, Mondadori, 2017. [40 prose di viaggi apparse originariamente sul Corriere della Sera e sul Corriere d’Informazione fra il 1946 e il 1964] * Satura. 1962-1970, Milano, A. Mondadori, 1971. * Nel nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1972. * Diario del '71 e del '72, Milano, A. Mondadori, 1973. * Sulla poesia, Milano, A. Mondadori, 1976. * Quaderno di quattro anni, Milano, A. Mondadori, 1977. * Altri versi e poesie disperse, Milano, A. Mondadori, 1981. * Diario postumo. Prima parte: 30 poesie, Milano, A. Mondadori, 1991. ISBN 88-04-34169-6. * Diario postumo. 66 poesie e altre, Milano, A. Mondadori, 1996. ISBN 88-04-41032-9. [sul testo, pubblicato postumo, alcuni studiosi hanno manifestato il dubbio di non autenticità Ossi di Seppia Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l’affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l’impossibilità di dare una risposta all’esistenza: in una delle liriche, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell’opera designa l’esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l’uomo, che con l’età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge l’atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell’uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce “Divina Indifferenza”, ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all’uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale “Divina indifferenza” è l’esatto contrario della “Provvidenza divina” manzoniana. La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in quattro sezioni, a loro volta organizzate al loro interno: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un’epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un’interpretazione compiuta della vita e dell’uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l’attesa di un miracolo. L’emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da “reclusione” interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura “scarna, scabra, allucinante”, e un “mare fermentante” dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo. Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Le occasioni In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall’abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali. La memoria è sollecitata da alcune “occasioni” di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove “Beatrici” a cui il poeta affida la propria speranza. La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un’idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell’amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà. Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale. In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l’idea della morte, l’impossibilità di dare una spiegazione valida all’esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto). La bufera e altro Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della “crisi” che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti. Per quanto riguarda l’engagement tipico di quegli anni, non ce n’è alcuna traccia. Xenia e Satura Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo “per dire tutto” (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata “Mosca” per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell’antica Grecia erano i doni fatti all’ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro– scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell’edizione Mondadori– Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell’impennata lirica e insieme la “prosa” che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.» Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Montale
Torquato Tasso (Sorrento, 11 marzo 1544 – Roma, 25 aprile 1595) è stato un poeta, scrittore, drammaturgo e filosofo italiano. La sua opera più importante, conosciuta e tradotta in molte lingue è la Gerusalemme liberata (1581), in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di Gerusalemme.
Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è stato un poeta, scrittore, traduttore e accademico italiano. Biografia Gli anni giovanili Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto, nel quartiere periferico Moharrem Bek, l’8 febbraio del 1888 (ma venne registrato all’anagrafe come nato il 10 febbraio, e festeggiò sempre il suo compleanno in quest’ultima data) da genitori italiani originari della provincia di Lucca. Il padre, Antonio Ungaretti (1842-1890), era un operaio, impiegato allo scavo del Canale di Suez, che morì due anni dopo la nascita del futuro poeta a causa di un’idropisia, malattia contratta negli anni di estenuante lavoro. La madre, Maria Lunardini (1850-1926), mandò avanti la gestione di un forno di proprietà, con il quale riuscì a garantire gli studi al figlio, che si poté così iscrivere presso una delle più prestigiose scuole di Alessandria d’Egitto, la svizzera École Suisse Jacot. Alla figura materna dedicherà la poesia La madre, scritta nel 1930, a quattro anni dalla morte della donna.L’amore per la poesia sorse in lui durante questo periodo scolastico, intensificandosi grazie alle amicizie che egli strinse nella città egiziana, così ricca di antiche tradizioni come di nuovi stimoli, derivanti dalla presenza di persone provenienti da tanti paesi del mondo; Ungaretti stesso ebbe una balia originaria del Sudan, una domestica croata ed una badante argentina. In questi anni, attraverso la rivista Mercure de France, il giovane si avvicinò alla letteratura francese e, grazie all’abbonamento a La Voce, anche a quella italiana. Inizia così a leggere, tra gli altri, le opere di Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé, Giacomo Leopardi, Friedrich Nietzsche e Charles Baudelaire, quest’ultimo grazie all’amico Mohammed Sceab.Ebbe anche uno scambio epistolare con Giuseppe Prezzolini. Nel 1906 conobbe Enrico Pea, da poco tempo emigrato in Egitto, con il quale condivise l’esperienza della “Baracca Rossa”, un deposito di marmi e legname dipinto di rosso, sede d’incontri per socialisti ed anarchici.Iniziò a lavorare come corrispondente commerciale, attività che svolse per qualche tempo, ma realizzò alcuni investimenti sbagliati; si trasferì poi a Parigi per intraprendere gli studi universitari. Il soggiorno in Francia Nel 1912, dopo un breve periodo trascorso al Cairo, lasciò dunque l’Egitto e si recò in Francia. Nel tragitto vide per la prima volta l’Italia ed il suo paesaggio montano. A Parigi, frequentò per due anni le lezioni tenute dal filosofo Henri Bergson, dal filologo Joseph Bédier e da Fortunat Strowski, presso la Sorbona ed il Collège de France. Entrato in contatto con un ambiente artistico internazionale, conobbe Guillaume Apollinaire, con il quale strinse una solida amicizia, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi, Pablo Picasso, Giorgio de Chirico, Amedeo Modigliani e Georges Braque. Invitato da Papini, Soffici e Palazzeschi, iniziò ben presto a collaborare alla rivista Lacerba. Nel 1913 morì l’amico d’infanzia Moammed Sceab, suicida nella stanza dell’albergo di rue des Carmes, che condivideva con Ungaretti. Nel 1916, all’interno della raccolta di versi Il porto sepolto, verrà pubblicata la poesia a lui dedicata, In memoria. In Francia, Ungaretti filtrò le precedenti esperienze, perfezionando le conoscenze letterarie e lo stile poetico. Dopo qualche pubblicazione su Lacerba (16 componimenti), avvenute grazie al sostegno di Papini, Soffici e Palazzeschi, decise di partire volontario per la Grande Guerra. La Grande Guerra Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, Ungaretti partecipò attivamente alla campagna interventista, arruolandosi in seguito, come volontario, nel 19º Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia”, quando, il 24 maggio del 1915, l’Italia entrò in guerra. A seguito delle battaglie sul Carso, cominciò a tenere un taccuino di poesie, che furono poi raccolte dall’amico Ettore Serra (un giovane ufficiale) e stampate, in 80 copie, presso una tipografia di Udine nel 1916, con il titolo Il porto sepolto. Collaborava a quel tempo anche al giornale di trincea Sempre Avanti. Trascorse un breve periodo a Napoli, nel 1916 (testimoniato da alcune sue poesie, per esempio Natale: "Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo di strade...") . Il 26 gennaio del 1917, a Santa Maria la Longa, in provincia di Udine, scrisse la nota poesia Mattina. Nella primavera del 1918, il reggimento al quale apparteneva Ungaretti si recò a combattere in Francia, nella zona di Champagne, con il II Corpo d’armata italiano del generale Alberico Albricci. Al suo rientro a Parigi, il 9 novembre del 1918, nel suo attico parigino, trovò il corpo dell’amico Apollinaire, stroncato dalla febbre spagnola. Tra le due guerre Dopo la guerra, Ungaretti restò nella capitale francese, dapprima come corrispondente del giornale Il Popolo d’Italia, diretto da Benito Mussolini, ed in seguito come impiegato all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Nel 1919 venne stampata, a Parigi, la raccolta di versi in francese La guerre– Une poésie, che sarà poi inclusa nella sua seconda raccolta di versi Allegria di naufragi, pubblicata a Firenze nello stesso anno. Nel 1920, il poeta conobbe e sposò Jeanne Dupoix, dalla quale avrà tre figli: un figlio, nato e morto nell’estate del 1921, Anna Maria (o Anna-Maria, come soleva firmare, con il trattino alla francese), Ninon (Roma, 17 febbraio 1925), e Antonietto (Marino, 19 febbraio 1930).Nel 1921, si trasferì con la famiglia a Marino, in provincia di Roma, e collaborò all’Ufficio stampa del Ministero degli Esteri. Gli anni venti segnarono un cambiamento nella vita privata e culturale del poeta. Aderì al fascismo, firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. In quegl’anni, svolse un’intensa attività letteraria su quotidiani e riviste francesi (Commerce e Mesures) ed italiane (su La Gazzetta del Popolo), e realizzò diversi viaggi, in Italia e all’estero, per varie conferenze, ottenendo nel frattempo diversi riconoscimenti di carattere ufficiale, come il Premio del Gondoliere. Furono questi anche gli anni della maturazione dell’opera Sentimento del Tempo; le prime pubblicazioni di alcune liriche dell’opera avvennero su L’Italia letteraria e Commerce. Nel 1923 venne ristampato Il porto sepolto, presso La Spezia, con una prefazione di Benito Mussolini, che aveva conosciuto nel 1915, durante la campagna dei socialisti interventisti.L’8 agosto del 1926, nella villa di Luigi Pirandello, nei pressi di Sant’Agnese, sfidò a duello Massimo Bontempelli, a causa di una polemica nata sul quotidiano romano Il Tevere: Ungaretti fu leggermente ferito al braccio destro ed il duello finì con una riconciliazione. Nel 1928, invece, maturò la sua conversione religiosa al cattolicesimo, come testimoniato anche nell’opera Sentimento del Tempo. A partire dal 1931, il poeta ebbe l’incarico di inviato speciale per La Gazzetta del Popolo e si recò, pertanto, in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e nell’Italia Meridionale, raccogliendo il frutto di quest’esperienze vissute nella raccolta Il povero nella città (che sarà pubblicato nel 1949), e nella sua rielaborazione Il deserto e dopo, che vedrà la luce solamente nel 1961. Nel 1933 il poeta aveva raggiunto il massimo della sua fama. Nel 1936, durante un viaggio in Argentina su invito del Pen Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò; trasferitosi quindi con tutta la famiglia in Brasile, vi rimarrà fino al 1942. A San Paolo, morirà il figlio Antonietto nel 1939, all’età di nove anni, per un’appendicite mal curata, lasciando il poeta in uno stato di acuto dolore e d’intensa prostrazione interiore, evidente in molte delle sue poesie successive, raccolte ne Il Dolore, del 1947, e in Un Grido e Paesaggi, del 1952. La seconda guerra mondiale e il dopoguerra Nel 1942 Ungaretti ritornò in Italia, dove venne nominato Accademico d’Italia e, “per chiara fama”, professore di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Nonostante i suoi meriti letterari e accademici, il poeta sarebbe stato vittima dell’epurazione seguìta alla caduta del regime fascista: esattamente dal luglio del 1944, anno in cui il Ministro dell’Istruzione Guido de Ruggero firmò il decreto di sospensione di Ungaretti dall’insegnamento, fino al febbraio 1947, quando il nuovo Ministro dell’Istruzione Guido Gonella reintegrò definitivamente il poeta come docente. A testimonianza del suo strenuo impegno per essere reintegrato, c’è una lettera, datata 17 luglio 1946, inviata all’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, in cui Ungaretti difendeva la propria causa, elencando i suoi numerosi meriti conseguiti in Italia e all’estero. Il poeta avrebbe poi mantenuto il suo ruolo di docente universitario fino al 1958 e in seguito, come “fuori ruolo”, fino al 1965. Attorno alla sua cattedra, si formarono alcuni degli intellettuali che si sarebbero in seguito distinti per importanti attività culturali e accademiche, come Leone Piccioni, Luigi Silori, Mario Petrucciani, Guido Barlozzini, Raffaello Brignetti, Raffaele Talarico, Ornella Sobrero ed Elio Filippo Accrocca. A partire dal 1942 la casa editrice Mondadori iniziò la pubblicazione dell’opera omnia di Ungaretti, intitolata Vita di un uomo. Nel secondo dopoguerra, Ungaretti pubblicò nuove raccolte poetiche, dedicandosi con entusiasmo a quei viaggi che gli davano modo di diffondere il suo messaggio e ottenendo significativi premi, come il Premio Montefeltro nel 1960 e il Premio Etna-Taormina nel 1966. Pubblicò un’apprezzata traduzione della Fedra di Racine e nel 1954 sfiorò il Premio Nobel per la Letteratura. Nel 1958 il poeta fu colpito da un grave lutto: l’amata moglie Jeanne si spense in seguito a una lunga malattia. Gli ultimi anni Nei suoi ultimi anni, Giuseppe Ungaretti intrecciò una relazione sentimentale con l’italo-brasiliana Bruna Bianco (più giovane di lui di cinquantadue anni), conosciuta casualmente in un hotel di San Paolo, dove si trovava per una conferenza. Della loro appassionata storia d’amore restano, come testimonianza, quattrocento lettere. Nel 1968 Ungaretti ottenne particolare successo grazie alla televisione: prima della messa in onda dello sceneggiato televisivo l’Odissea di Franco Rossi, il poeta leggeva alcuni brani tratti dal poema omerico, suggestionando il pubblico grazie alla sua espressività di declamatore. Sempre nel '68, per i suoi ottant’anni, Ungaretti venne festeggiato in Campidoglio, in presenza del Presidente del Consiglio Aldo Moro; a rendergli onore i poeti Montale e Quasimodo. Nel 1969 la Mondadori inaugurò la collana dei Meridiani pubblicando l’opera omnia ungarettiana. Nello stesso anno il poeta fondò l’associazione Rome et son histoire. Nella notte tra il 31 dicembre del 1969 ed il 1º gennaio del 1970, Ungaretti scrisse la sua ultima poesia, L’Impietrito e il Velluto, pubblicata in una cartella litografica il giorno dell’ottantaduesimo compleanno del poeta. Nel 1970, un viaggio a New York, negli Stati Uniti, durante il quale gli fu assegnato un prestigioso premio internazionale dall’Università dell’Oklahoma, debilitò definitivamente la sua pur solida fibra. Morì a Milano, nella notte tra l’1° ed il 2 giugno del 1970, per una broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo italiano. È sepolto nel Cimitero del Verano, accanto alla moglie Jeanne. Poetica L’Allegria è un momento chiave della storia della letteratura italiana: Ungaretti rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti (in particolare dei versi spezzati e senza punteggiatura dei Calligrammes di Guillaume Apollinaire), coniugandolo con l’esperienza atroce del male e della morte nella guerra. Al desiderio di fraternità nel dolore si associa la volontà di ricercare una nuova “armonia” con il cosmo che culmina nella citata poesia Mattina (1917). Questo spirito mistico-religioso si evolverà nella conversione in Sentimento del Tempo e nelle opere successive, dove l’attenzione stilistica al valore della parola (e al recupero delle radici della nostra tradizione letteraria), indica nei versi poetici l’unica possibilità dell’uomo, o una delle poche, per salvarsi dall’"universale naufragio". Il momento più drammatico del cammino di questa vita d’un uomo (così, come un “diario”, definisce l’autore la sua opera complessiva) è sicuramente raccontato ne Il Dolore: la morte in Brasile del figlioletto Antonio, che segna definitivamente il pianto dentro del poeta anche nelle raccolte successive, e che non cesserà più d’accompagnarlo. Solo delle brevi parentesi di luce gli sono consentite, come la passione per la giovanissima poetessa brasiliana Bruna Bianco, o i ricordi d’infanzia ne I Taccuini del Vecchio, o quando rievoca gli sguardi d’universo di Dunja, anziana tata che la madre aveva accolto nella loro casa d’Alessandria: La fortuna di Ungaretti La poesia di Ungaretti creò un certo disorientamento sin dalla prima apparizione del Porto Sepolto. A essa arrisero i favori sia degli intellettuali de La Voce, sia degli amici francesi, da Guillaume Apollinaire a Louis Aragon, che vi riconobbero la comune matrice simbolista. Non mancarono polemiche e vivaci ostilità da parte di molti critici tradizionali e del grande pubblico. Non la compresero, per esempio, i seguaci di Benedetto Croce, che ne condannarono il frammentismo. A riconoscere in Ungaretti il poeta che per primo era riuscito a rinnovare formalmente e profondamente il verso della tradizione italiana, furono soprattutto i poeti dell’ermetismo, che, all’indomani della pubblicazione del Sentimento del tempo, salutarono in Ungaretti il maestro e precursore della propria scuola poetica, iniziatore della poesia «pura». Da allora la poesia ungarettiana ha conosciuto una fortuna ininterrotta. A lui, assieme a Umberto Saba e Eugenio Montale, hanno guardato, come un imprescindibile punto di partenza, molti poeti del secondo Novecento. Opere principali Poesia II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916; Natale, Napoli, 26 dicembre 1916; La Guerre– Une poésie, Paris, s. e. [Etabl. Lux] 1919– nuova ed. Nantes, Le Passeur, 1999 (a cura di Jean-Charles Vegliante); Allegria di naufragi, Vallecchi, Firenze, 1919; Il Porto Sepolto, Stamperia Apuana, La Spezia, 1923; L’allegria, Preda, Milano, 1931; Sentimento del Tempo, Vallecchi, Firenze, 1933; La guerra, I edizione italiana, Milano, 1947; Il Dolore, Milano, 1947; Derniers Jours. 1919, Milano, 1947; Gridasti: Soffoco..., Milano, 1950; La Terra Promessa, Milano, 1950; Un grido e Paesaggi, Milano, 1952; Les Cinq livres, texte français établi par l’auteur et Jean Lescure [con “Quelques réflexions de l’auteur”], Paris, Minuit, 1954; Poesie disperse (1915-1927), Milano, 1959; Il Taccuino del Vecchio, Milano, 1960; Dialogo, Milano, 1968; Prosa e saggistica II povero nella città, Milano, 1949; Il Deserto e dopo, Milano, 1961; Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti, di Leone Piccioni, Rizzoli 1974. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano, 1974; La critica e Ungaretti, di G. Faso, Cappelli, Bologna, 1977; Invenzione della poesia moderna, Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942), a cura di P. Montefoschi, Napoli, 1984; Vita di Giuseppe Ungaretti, di Walter Mauro, Anemone Purpurea editrice, Roma, 2006; Traduzioni Traduzioni, Roma, 1936; 22 Sonetti di Shakespeare, Roma, 1944; 40 Sonetti di Shakespeare, Milano, 1946; Da Góngora e da Mallarmé, Milano, 1948; Fedra di Jean Racine, Milano, 1950; Visioni di William Blake, Milano, 1965. Epistolari Lettere a Soffici, 1917/1930, Napoli, 1983; Lettere a Enrico Pea, Milano, 1984; Ungaretti-De Robertis. Carteggio 1931/1962, Milano, Il Saggiatore, 1984; Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, Milano, 1988; Correspondance J. Paulhan– G. Ungaretti 1921-1968, Paris, nrf (Gallimard), 1989; L’allegria è il mio elemento. Trecento lettere a Leone Piccioni, Milano, Oscar Mondadori, 2013; Lettere dal fronte a Gherardo Marone, Milano, Collana “I Meridiani”, Mondadori, 2015; Lettere a Bruna, a cura di Silvio Ramat, Milano, Mondadori ("Oscar Baobab"), 2017. Archivio Il fondo Giuseppe Ungaretti è conservato presso l’Archivio contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux, donato nell’aprile 2001 da Anna Maria Ungaretti Lafragola, figlia del poeta. Il fondo, che giunge raccolto in 46 faldoni, contiene la corrispondenza del poeta, i manoscritti e i dattiloscritti della sua produzione poetica, critica e di traduttore, i ritagli di giornale con suoi testi o con articoli e saggi a lui dedicati. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Ungaretti
“Senza poeti, senza artisti, gli uomini sarebbero presto stanchi della monotonia della natura.” —Guillaume Apollinaire
“La poesia è il fuoriuscire spontaneo di sentimenti potenti: essa trae origine dall'emozione raccolta in tranquillità” —William Wordsworth