Ada Negri

Il canto della zappa

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Ruvida spada io son che il terren fende;
Son forza ed ignoranza.
In me stride la fame e il sol s’accende;
Son miseria e speranza.
 
Io conosco la sferza arroventata
Dei meriggi brucianti,
Dell’uragan che scroscia a la vallata
Le nubi saettanti.
 
Io so gli olezzi liberi e feraci
Che maggio da la terra
Con aulenti corolle, insetti e baci
Trionfando disserra:
 
E nell’opra d’ogni ora e d’ogni istante
Io più m’affilo e splendo;
Rassegnata, fortissima, costante,
Vo il duro suol rompendo.
 
Ne le basse casupole sconnesse,
Nel rozzo cascinale
Ove penètra per le imposte fesse
La ràffica invernale,
 
Ove del foco sul tizzon che geme
L’ignavia s’accovaccia,
E la pellagra insazïata freme
Gialla e sparuta in faccia,
 
Entro e guardo.—E in un canto abbandonata,
Ne l’alta e paurosa
Notte che incombe a l’umida spianata
E a la stanza fumosa,
 
Mentre la febbre di risaia scote
Feminei corpi affranti,
E più non s’odon che le torve note
Dei villici russanti,
 
Veglio, ed un soffio di desir m’infiamma.
.... Sogno la nova aurora,
Quando, dritta qual rustico orifiamma
Nel sol che l’aure indora,
 
Serenamente splendida, brandita
Da un’inspirata plebe,
Sorgerò, bella di vigor, di vita,
Da le feconde glebe.
 
Ma le lame saran pure di sangue,
E bianchi gli stendardi;
Conculcato morrà de l’odio l’angue
Sotto i colpi gagliardi;
 
E dalla terra satura d’amore,
Olezzante di rose.
Purificata dal novello ardore
De le gare animose,
 
Fino a l’azzurro ciel tutto un tumulto
Di rozze voci umane
Salirà come un inno ed un singulto:
«Pace!... lavoro!... pane!....»

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