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A Massimo Bontempelli

Il passato obliar, veder sagace
in un dolce avvenir, forse non vero
ma che rinnova quanto è più fallace...
BONTEMPELLI: Egloghe ("Le Compagne")

I.
 
Poeta, or che più lieto arride Maggio
ritornerai al verde nido ombroso
“con Quella che d’Amor ti tiene ostaggio”.
 
E lieto più che mai ti sia il riposo
però che al tuo fratello hai dato il bene
del libro salutifero e gioioso.
 
Il senso della Vita alle mie vene
ritorna ed alla mente il dolce lume
e fuggonsi i fantasmi di mie pene
 
se vado rileggendo il tuo volume.
 
II.
 
Ma tu non sa ch’io sia: io son la trista
ombra di un uomo che divenne fievole
pel veleno dell’"altro evangelista".
 
Mia puerizia, illusa dal ridevole
artificio dei suoni e dagli affanni
di un sogno esasperante e miserevole,
 
apprestò la cicuta ai miei vent’anni:
amai stolidamente, come il Fabro,
le musiche composite e gl’inganni
 
di donne belle solo di cinabro.
 
III.
 
Or troppo il sole aperto mi commuove
tanto fui uso alla penombra esigua
che avvolgon le cortine delle alcove.
 
Tu mi richiami alla campagna irrugua?
Troppo m’illuse il sogno di Sperelli,
troppo mi piacque nostra vita ambigua.
 
O benedetti siate voi, ribelli,
che verso la salute e verso il vero
ritemprate le sorti dei fratelli.
 
Per me nulla tentar. Più nulla spero.
 
IV.
 
Me non solleverai. Forse già sono
troppo malato e forse più non vale
temprarmi alle terzine del tuo dono.
 
Però senti e rispondimi: già un tale
morbo tenne te pur? Tu pur malato
fosti e guaristi del mio stesso male?
 
Sorella Terra dunque t’ha sanato?
Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
membra distenderò, come il Beato,
 
per aspettare la sorella Morte.
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