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Canzone Vl

Deh chi sent’io, mie dolci rive amiche,
Che pur di sen vi svelle
Mio bel Genebro, e ’n quelle
Altre il ripon di voi tanto nemiche,
E di voi meno apriche?
Anzi più; ch’or da voi
Pur vôlti il ciel là tutti i lumi suoi?
    Come piange Arno, e corre
Oltra l’usato tempestoso e ’nsano,
Sol perchè a mano a mano
Il bel Genebro suo si sente tôrre;
Così ride, e pian piano
Or vassene, e più quêta
E più lieta che mai la bella Sona,
Che di lui s’incorona e per lui spera
Eterna primavera.
    Onde pur, lasso! al faticato fianco
Arrò più qualche posa?
La dolce ombra amorosa
Del mio Genebro altero or ne vien manco:
Man rapace invidiosa
Svéglielo de’ nostr’orti,
E par sì lunge, oltr’a quell’alpi, il porti,
Che più nè seguitarlo
Spero nè rìtrovarlo.
    Or pur cadrò; m’è tolto il mio sostegno
E più saldo e più fido:
Nè, se ben piango e grido,
M’ode o si piega il mio nemico indegno.
Ma come tanto sdegno
In ciel ver’ me sì tosto?
In ciel ch’or m’avea posto
In parte da bearme,
Or congiurato par tutto a dannarme?
   A che pur tante e tante, Amor, versarmi
In grembo tue ricchezze,
E di tante allegrezze il côr colmarmi,
Per or più che mai farmi
E povero e doglioso? In ciel beato
Lasso! fui poco: or cággione, e dannato
Per sempre; nè già mio
(E questo è ch’io mi doglio)
Superbo orgoglio od altro fallo rio.
    Per troppo aspro vïaggio
E lungo il giovin mio Genebro porti.
Deh, no ’l trar di quest’orti
Cultor! deh, sia più saggio!
Ahi, ch’ogni picciol raggio
Di sole, ogni aura leve, gentil fronda
E ramo, come i suoi, séccane e sfronda!
    Ne riponeva in ciel, pianta al ciel grata,
Tua bella vista sola;
Ne riponeva in ciel, pianta beata,
L’ombra ch’or mi s’invola.
Ahi folle e dispietata
Man che d’orto sì bel ti sveglie e parte,
Misera! e per piantarte
Ove? in gelata riva,
Ove fior maggio a pena o fronde ha viva.
    Agli esperidi orati alteri frutti
Le foglie d’un Genebro i’ pongo avanti,
E ’l vago stelo a tutti
I più dritti arboscei degli orti santi,
E ’l vivo verde a quanti
Smeraldi mai diènne il più ricco lido.
Però grido:—Quell’empio che men priva,
M’invidia ben ch’io viva.—
    Ancisa or la mia speme,
Anima illustre, cade a tua partenza,
Come vite che senza
Sostegno atterra le sue frondi estreme;
E qual fior, s’altri il preme,
Il suo bel giallo o rosso, ella tal perde
Il suo vivo bel verde.
    Toltomi, Amor, del mio Genebro amato
L’odor di che nudrissi
Il côr, nè d’altro io vissi,
Questo or sia del mio sen l’ultimo fiato:
Nè vo’ che di mio stato
Tu curi o mi soccorra, e schivo tutti
Tuoi più salubri frutti;
Anzi tuo latte e mêle
Odio qual tôsco o fêle.
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