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[Ah! Difettivi sillogismi!]

Ah! Difettivi sillogismi! L’io
che c’è sì caro, muore ad ogni istante
senza rimpianto. Muore nel riposo
e nella veglia. Un calice di vino
un grano d’oppio, uno sbigottimento
una ferita, basta a dileguarlo.
Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio
ritroveremo intatto e vigilante
il buono fanciulletto interïore
che ci ripete d’esser sempre noi...
Ah! Fanciullesca è veramente questa
anima semplicetta che riduce
alla nostra stadera l’infinito;
nutre speranze, chiede privilegi
più spaventosi del più spaventoso
nulla, ché il nulla è non poter morire.
Come pensare senz’abbrividire
tutta l’eternità chiusa nell’io
in quest’angusto carcere terreno?
Quasi bramosi fantolini e vani
preghiamo un bene e non sappiamo quale.
Quando per anni o per follia s’offusca
l’altrui cervello, quella decadenza
più non c’inquieta della decadenza
corporea. Permane la speranza
che l’io del caro sopravviva ancora
mentre è già come se non fosse più.
Ora se quasi ci si acqueta in vita
allo sfacelo della mente immemore
che mai vogliamo dalla morte immune?
Questa cosa di noi che vuol persistere
indefinita, è dunque indefinibile
come il raggio ch’emana dalla lampada,
come il suono che emana dal lïuto;
lampada e lïuto sono tra gli arredi
più famigliari e semplici che posso
scomporre ricomporre con le mani;
il mistero m’appare se mi chiedo
che sia, di dove venga, dove vada
il prodigio del suono e della luce...
Oimè! L’essenza che rivibra in noi
non può per intelletto esser compresa
da poi che l’io solo con se stesso,
soggetto, oggetto della conoscenza,
come uno specchio vano si moltiplica
inutilmente ed infinitamente
e nel riflesso è prigioniero il raggio
di verità che l’occhio non discerne.
Giova quindi sottrarci all’incantesimo
alla voce che implora di rivivere
come a un morbo insanabile terrestre.
Negli attimi di grazia, quando l’io
dilegua nei pensier contemplativi
quando l’istinto tace e si compiace
nella gioia dell’utile non nostro
o freme ad una strofe ad una musica
nell’ebrezza senz’utile dell’arte,
forse ci giunge il pallido riflesso
d’una luce remota, della vita
che ci attende al di là, nel puro spirito,
nel non essere noi, nell’ineffabile.
È la fede che Socrate morente
predicava all’alunno: "Datti pace!
Non morirò: seppelliranno l’altro".
È la luce che Baghava Purana
rivelava sul tronco del palmizio:
“Solo eterno è lo spirito. Non piangere
su te su me su altri. Perché l’io
ed il non io son frutto d’ignoranza.
Desideravi un figlio, o Re; l’avesti;
oggi provi lo strazio del distacco,
strazio che dànno tutte le fortune
a chi s’illude e pensa durature
l’apparenze caduche della vita.
Solo eterno è lo spirito. Nei tempi
chi fu per te quel figlio che tu piangi?
Chi tu fosti per lui? Che voi sarete
l’uno per l’altro nell’ignoto andare?
Sabbia del mare, foglie date al vento...
Solo eterno è lo spirito. Consolati".
Ma il re singhiozza disperato ancora
e pel prodigio d’uno di quei rishy
l’anima si ridesta nel cadavere,
si guarda intorno sbigottita, dice:
“In quale delle innumeri apparenze
d’animali, di uomini, di devhas
m’ebbi per padre questo che m’abbraccia?
Non mi toccare: io non ti riconosco.
O tu che piangi su di me non piangere.
Solo eterno è lo spirito. Consolati!".
Così parlato il giovinetto muore
un’altra volta. L’anima s’invola
eternamente. E il Re non piange più.
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