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Canzone ll

Rapido Po, che con le torbid’onde
Superbo vai tra l’arenose rive,
Dove le stanche già sorelle dive
Piangendo diventare alberi e fronde;
Altiero fiume, che da le profonde
Grotte de l’Alpi, che d’intorno bagna
Il ligustico mar, tumido sorgi,
E mormorando tra i lombardi campi,
Trebbia e Ticino, con l’antico nome
Di bellicosi vampi,
Teco al vïaggio tuo guidando scorgi,
Dove fra gli altri, come
È fra le stelle il sole,
Con le madide chiome
L’onorato tuo Mincio t’accompagna,
Sin là ’ve al mar il tuo tributo porgi:
O re de’ fiumi, in queste piagge sole
Odi le mie parole.
    Tra quelle ombrose querce Melibeo
Pensoso stava, il suo gregge pascendo,
Come soleano già i pastor, sedendo
Tra i bei colli di Menalo e Liceo;
E dicea con dolor acerbo e reo:
—O Eridano mio, i nostri armenti
Non han più nè li tuoi securo un loco;
Chè giù da gli alti monti è già venuto
Chi accende fiamme in le tue mandre, e fura;
E per gridar ajuto
È de’ nostri pastori ognun già roco.
Deh! se già sepoltura
Fosti al figliuol del Sole,
Allor ch’ebbe paura
Il mondo d’andar tutto in fiamme ardenti,
Smorza con l’acque tue quest’altro fôco.
O re de’ fiumi, in queste piagge sole
Odi le mie parole.
    Ecco, tra i nostri pascoli discesi
Fieri apri, aspri orsi, e per diverse rupi
La notte scender ululando lupi,
Che versan gli occhi di spavento accesi:
Anzi (chi fia che ’l creda?), i’ ho già intesi
Con voce umana orribile chiamarsi;
E menzogna non è che in lor sian l’alme
Dei ladron che son morti in queste selve;
Ed odonsi al silenzio della luna
Mugghiar più strane belve,
Chè nè al fuggir nè al star l’animo valme.
    Quando fia mai, fortuna,
Che veggia, allor che, il sole
Calando, l’aere imbruna,
Le pecorelle mie la sete trarsi
Su queste rive, e con l’usate salme
Tornarsi a casa; e in queste piagge sole
S’odan le mie parole?
Quando fia mai che ’l bel volto di tauro,
O re de’fiumi, le tue amate ninfe
Ti spargano di latte e chiare linfe,
Coronando di fior le corna d’auro?
E i tuoi pastor di mirto e verde lauro
Adornino le mandre, e a gli alti abeti
Vaghi sospendan le zampogne e gli archi?
E di teneri agnelli sacrifizio
Ti facciano, con preghi e voce umile,
Ch’a l’estivo solstizio
Nel tuo gonfio ondeggiar gli argini varchi,
Perchè a l’usato ovile,
Mentre ha men forza il sole,
Finchè ritorni aprile,
Possano starsi, e poi tornarsi lieti
A le campagne aperte e ameni parchi?
O re de’ fiumi, in queste piagge sole
Odi le mie parole.—
    Così diceva; e tra verdi arboscelli
Giacéa fra l’erbe la mia Mincia3 all’ombra,
Qual chi di dolce sonno l’aura ingombra
Col mormorar de’ limpidi ruscelli.
Sparsi le aveva Zefiro i capelli
Per quel candido collo e per la fronte;
E tremar si vedean soavemente
Le marmoree mammelle entro al bel velo,
D’arder d’amor côr freddi, aspri e selvaggi:
Quando, svegliata, al cielo
Volse i begli occhi con splendor sì ardente,
Che diêr lume i bei raggi
U’ non passava il sole
Là nei più folti faggi;
E, sospirando, verso l’orizzonte
Mandò pur fuor quella voce dolente:
—Ahi! dove sei ascoso, o almo sole,
Per queste piagge sole?
    Ahi! dove sei ascoso, o almo sole,
Che il perso gregge a’ tuoi smarriti rai
Sen va gridando in tenebrosi guai?
Ahi! dove sei ascoso, almo mio sole?
E con le chiome sparse oggi si dôle
La tua Tarpeja, e avvolta in nera gonna
Con quegli occhi di fuoco i sette colli
Empie d’orror, e grida ad alta voce:
—Perchè mi avete abbandonata, o Dei?
Perchè da l’alto, atroce
Mio mal, da l’alte mie ruine e crolli
Fuggite? Ah! dove sei
Tu che sembravi un sole?
Che veder mi solei
Reina de le genti, e al mondo donna
Di quanto vedi ove più in ciel t’estolli?—
Ahi! dove ascoso sei, o almo sole,
Da queste piagge sole?
    Chi regge. Apollo mio, guarda chi regge
Le pecorelle tue: un pastor losco,
Che perso ha già nel bel paese tosco
Il suo negletto e mal guidato gregge!
Guarda che persa è la tua antiqua legge,
Antico Palestin: vedrai te avanti
Tronche le piante ove posar solea
La bella vigna nostra, o in pace o in guerra:
Vedrai la sposa tua, che in su l’aurora
Giace deserta in terra,
Venduto il manto che d’intorno avea,
E scalza ad ora ad ora
Si muore. Ahi! perso il sole,
Tu perderai ancora
E la nave e le reti e pesci quanti
Hai preso mai nel mar di Galilea.
Ahi! dove sei ascoso, o almo sole,
Da queste piagge sole!
     Con l’arme sole del pastor d’Esperia,
Se non li fea il tuo sangue il veder scemo,
Potuto avresti, ingrato Polifemo,
Cavarla fuor di questa vil miseria.
O d’ogni nostro mal forma e materia,
Quanto da quei che ti lassâr le chiavi,
Da sì alta quercia5 tralignar ti mostri!
Tu il vedi, alma Gonzaga, in Montefeltro.
Dimanda or dov’è il pan di che nodristi
Questo arrabbiato veltro,
Questa fiera neméa, questi duo mostri.
Sol, perchè non fuggisti
Indietro, irato sole,
Da’ scellerati e tristi
Auspíci? Ahi mondo, che sanar pensavi
Con medico sì vile i dolor nostri!
Orbo mondo, se falli, il Cielo il vuole;
Ch’egli è oscurato il sole.
    Oscura è Cinzia; alza Atteon in alto
Le corna; e va trescando la stuprata
Figliuola di Sïon là ’ve l’armata,
Con così chiaro ed onorato salto,
Plebe salì sovra l’altre arme tanto.
Apri la maestà del sacro volto,
Tevere, fuor de’ muscosi antri, ed odi
Gridando andar tra le sue rive il Reno:
—Diva Ippolita, mia, chè non sei meco?
Tu dal mio bel sereno
Sei lunge, e tu, Sardanapalo, il godi.—
Piangon le rive seco;
E tu tel vedi, o sole;
E tu il sostieni, o cieco,
Vôto d’ogni valor, mondo: sì involto
T’ha questa Babilonia in sì bei nodi!
Orbo mondo, se falli, il Cielo il vuole;
Ch’egli è oscurato il sole.

Note
1-Stampata in appendice dal Barotti, esclusa dal Molini nell’edizione del 1824, accolta tra i Versi alla patria di 2-2-Lirici italiani dal secolo XIV al XVIII, ma solamente come attribuita a Lodovico Ariosto.
Latinismo non registrato.
3-Nell’oscurità grande di questa Canzone, il barlume che viene da queste due parole potrebbe destar sospetto che l’autore di essa fosse di patria mantovano. E qual fosse in Mantova il poeta abile a scriverla, e avente ancora cagioni non lievi di sdegno contro il pastor losco che sedeva in que’ tempi, agli eruditi è già noto.
4-Allusione al rivolgimento politico avvenuto in Firenze nel mese di maggio 1527.
5- Giulio II. Il poeta mostra in più modi la sua affezione verso le due famiglie che signoreggiarono Urbino.
6-Ippolita, pronipote di Lodovico Sforza, e moglie di Alessandro Bentivoglio, ne’ suoi dì lodatissima. Il diva ed il mia farebbero pensare al Bandello, che di lei fu amante poetico e iperbolico encomiatore.

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