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LA SOLERZIA DEL RABDOMANTE

Jonchées

Le aurore si dissolvono
nella chiarità di piogge torrenziali,
spaiati corridoi di cerchi d’acqua,
si dilatano come fumo che s’aggroviglia
sul giro della vite,
sul rinfianco che tiene insieme
le linee concave dei volti,
la febbre che consuma le giunture
di torbe secchie nella neve.
Nel riquadro rovesciato
di occhi – finestre –
vitreo s’accuccia
il guardo non compreso,
si sformò sulle bocche di leone
la notte che trasudava spine,
nelle fiamme che valicavano torri di pietra
si confuse ad enfiate bolle
il salto che fece– sintetica libellula
liscia come stelle– nella galleria di marmi.
S’è annodato al cerchio il decrittato sguardo,
non ha colpa il libeccio se si fa cenere
il verso accolto sulla porta,
non ha corpo il vento che disfiora
i campi grigi di plagati muschi,
ruba la nube al cielo di campane;
come in un film s’impiglia fra i capelli
la voce che dentro ti scavò
scricchiolanti paraventi di grafite,
apparve – incandescente lettera –
la parola pronunziata,
al di là del suono che la compose
sul fondo del terrario.
Sono foglie rotonde gli occhi dei passanti,
la sola pianta che si dirama
in campi di radici e rivive in redamate forme, nell’anima del mondo...
v’è una tale mole di cose silenziose,
i funghi sotto i massi scalpellati,
insù ciprigna drupa,
sono partenti – gemelli rivi –
di tiepidi affluenti le meste voci
di saturnali reme.
Fiorisce la robinia come ogni primavera,
s’allontanerà il pidiere
nel discrimine scarlatto
di un busto di mangrovie;
preme sul dosso la poesia
dettata dalla noia,
aduggia nell’angolo di ribes
il suono di monete.
Sparirà la luna nelle venature
ad olio delle tele,
s’intersecano cerchi al di là del fiume
nel gamborósso della giacca;
è una rosa quella linea che si spezza,
nell’ambage d’ingusciati chiassi
si spacca il sole fra i raggi della ruota,
nei torsoli anneriti dalla grata.
 
Thea Matera ©
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